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Le Monache Camaldolesi di Pratovecchio

Vita di San Romualdo

di S. Pier Damiano

Traduzione, Commento e Note a cura di Thomas Matus

 

Introduzione

Mentre scrive la Vita del beato Romualdo (= VR), Pier Damiano si trova al monastero di San Vincenzo presso la gola del Furlo, provincia di Pesaro e Urbino. Ha trentacinque anni ed è da otto anni monaco al piccolo eremo benedettino di Fonte Avellana. Siamo nel 1042, quindici anni dopo la morte di Romualdo.

S. Romualdo non ha fondato Fonte Avellana; se mai l’abbia visitato, non ce lo dice Pier Damiano. Ma alcuni monaci di S. Vincenzo hanno conosciuto Romualdo e l’hanno avuto come maestro; perciò chiedono con insistenza che il dotto avellanita ne scriva la vita.

Oggi, chi legge questa Vita, anche un monaco o una monaca che vede in S. Romualdo il maestro ideale della sapienza monastica, ha bisogno di una chiave di lettura del testo, per non confonderne la forma con il contenuto, la veste letteraria agiografica con la realtà vissuta dai suoi protagonisti. Infatti, è impossibile formarsi un’idea giusta della persona e della missione di Romualdo, se non si tenga ben presenti: 1) le intenzioni dell’autore, 2) il genere letterario dell’opera e 3) le fonti cui l’autore attinge.

 

Le intenzioni dell’autore

S. Pier Damiano esprime la sua intenzione principale già con la prima parola della VR: Adversum, “Contro!”. Il Damiano esordisce come scrittore (la VR è la sua prima opera pubblicata) protestando contro un «mondo immondo», contro una società, una cultura e una Chiesa che girano a vuoto, che mantengono intatte le forme ormai prive di contenuto, mentre dappertutto c’è una gran folla «affamata della Parola di Dio» (cf. Amos 8,11), specialmente della parola divenuta carne di «ortoprassi» nei santi, quali Romualdo di Ravenna. Perciò il Damiano intende proporre, agli uomini del suo tempo, compresi gli uomini di Chiesa, l’esemplificazione di certi valori che questi uomini andavano perdendo o avevano già perduto.

La VR proietta gli eventi vissuti dal santo sul grande schermo di un futuro desiderato e auspicato dall’autore; l’opera mette Romualdo in primo piano come modello per una riforma generale della società ecclesiastica e civile. E’ per questo - e non solo per motivi di correttezza storiografica - che Pier Damiano evita di raccontare tanti miracoli attribuiti al santo durante la vita e dopo la sua morte. Pur volendo che la gente comune ascolti la sua VR, il Damiano non sta al gioco della loro sete del miracoloso; di S. Giovanni Battista - dice - non si racconta alcun miracolo. Quel che vale, nella vita del Precursore di Gesù come in quella dell’abate eremita di Ravenna, è il senso profetico dei fatti. La vita di un santo si presenta, dunque, come rimprovero per il presente e come proposta e sfida per il futuro.

 

Il genere letterario

Il genere letterario della VR non è storico: Pier Damiano non è il “biografo” di S. Romualdo, nel senso odierno del termine. Lo dice lui stesso: non hystoriam texens sed quoddam quasi breve commonitorium faciens. Il suo commonitorium (allo stesso tempo una “testimonianza”, un “memoriale” e un “ammonimento”) è stato composto sulla falsariga di testi letti e riletti nei monasteri e nelle chiese sin dal quarto secolo. Il primo esempio di questo genere - il racconto di un santo monaco che ha reso testimonianza nella Chiesa alla divinità di Cristo e alla sua vittoria sul male è la Vita di Antonio scritta da S. Atanasio di Alessandria in Egitto ai tempi della lotta fra ariani e ortodossi. Qualche decennio più tardi S. Girolamo scrisse la Vita di Ilarione, un Palestinese convertitosi a Cristo e all’ascesi monastica sotto l’influsso dello stesso Antonio. Negli ambienti benedettini, poi, il testo agiografico per eccellenza erano i Dialoghi di S. Gregorio Magno (540-604), specialmente il libro II che parla di Benedetto abate di Montecassino, cui la tradizione ha sempre attribuito la Regola dei monaci detta di S. Benedetto. La stessa Regola, pur non avendo carattere narrativo, fu un punto di riferimento essenziale per l’agiografia medioevale: giacché «questa Regola non contiene la totalità di ciò che è giusto» (si tratta del titolo del capitolo 73) i monaci del Medioevo cercavano modelli di perfezione cristiana e monastica negli esempi dei loro confratelli santi i quali, studiando e vivendo fino in fondo le Sacre Scritture e «gli insegnamenti dei santi Padri», erano andati oltre ogni regola nell’adempimento della loro vocazione.

 Pier Damiano propone la sua VR come un testo liturgico, un libro da leggere in chiesa, dal pulpito, davanti ai fedeli radunati per celebrare il transito del santo. La VR trova la sua collocazione liturgica nell’Ufficio divino, specialmente nell’Ora dell’ascolto, la Veglia notturna o Mattutino. Posto accanto alla salmodia cantata e ai brani biblici letti e ascoltati, il libro sull’abate eremita di Ravenna li commenta ed è da essi commentato.

 Riletta oggi al tavolino o passeggiando o in treno, la VR richiede, per la sua giusta comprensione, un notevole sforzo mentale. Siamo appena all’inizio di una stagione di rinnovamento biblico-liturgico, grazie al Concilio Vaticano II, ancora molto lontano dal recupero della celebrazione popolare delle Ore, quel memoriale Dei che dovrebbe essere la liturgia per eccellenza del Popolo di Dio, una liturgia che culmina nell’atto sacerdotale dell’Eucaristia ma non è da questa sostituita o soppressa. Facciamo ancora fatica a riscoprire il valore della lettura liturgica ascoltata e meditata insieme, commentata, certo, anche dalle parole di un prete, ma innanzitutto commentata per l’accostamento al canto dei Salmi - nella lingua del popolo, si intende. Solo sforzandoci almeno di immaginare tale contesto liturgico-biblico-mistagogico, riusciremo a comprendere il senso profetico della VR.

 

Le fonti

Le fonti su Romualdo cui attinse Pier Damiano sono tutte orali. Lo sappiamo, primo, perché lo dice lui, e secondo, perché è probabile che il Damiano non abbia letto i due scritti che egli attribuisce a Romualdo (un libretto «Sulla lotta contro i demoni» e un Salterio commentato) ed è certo che non abbia conosciuto il testo della Vita dei cinque fratelli scritta nel 1008 da S. Bruno Bonifacio di Querfurt, allorché «il padre degli eremiti ragionevoli» aveva circa 56 anni.

Ora, la tradizione orale è molto affidabile quando si tratta di luoghi e gesta, ma non altrettanto quando si tratta di date e nomi di persone. Nelle note introduttive ai singoli capitoli della VR avviseremo il lettore quando le informazioni che Pier Damiano ha raccolto e trasmesso non corrispondono alla verità storica, accertata da documenti contemporanei agli eventi.

Quali sono i documenti - oltre, si intende, la VR - che parlano dell’abate eremita ravennate? Di primissima importanza è naturalmente la Vita dei cinque fratelli. S. Romualdo è menzionato pure in altri documenti pre-damianei, sebbene solo per transennam. Nella Vita di Pietro Orseolo (opera di un monaco catalano che scrive all’inizio del secolo XI) leggiamo che Orseolo, il doge di Venezia, con «tre personaggi della società veneta, Giovanni Morosini, Giovanni Gradenigo e Romualdo», parte di nascosto per l’abbazia di S. Michele di Cuixá (o Cuxa) nei Pirenei orientali. E’ la prima data certa nella vita di Romualdo: domenica 1 settembre 978.

Questa data ci aiuta a risolvere la questione dell’età di S. Romualdo, cui Pier Damiano attribuisce 120 anni. Dal momento che il resto della cronologia romualdina si svolge regolarmente a partire da quella data, allora Romualdo, secondo il Damiano, avrebbe dovuto avere 71 anni ed essere stato nelle paludi di Venezia per quasi mezzo secolo insieme al vecchio eremita Marino, cui di conseguenza dovremmo affibbiare almeno 90 anni; dopo altri dieci Marino avrebbe avuto la forza per scendere a piedi dai Pirenei e andare a finire in Puglia, dove sarebbe stato ucciso dai saraceni! - tutte conclusioni in sé assurde e inconciliabili con quanto lo stesso Damiano dice nei primi capitoli della VR. Di nuovo, il nostro razionalismo cartesiano deve mettersi da parte e lasciarci leggere i numeri come li leggevano gli antichi, ossia come simboli. I 120 anni hanno un valore profetico: E’ l’età di un nuovo Mosè che ha guidato l’esodo di una schiera di monaci e monache e li ha avviati verso la terra promessa della libertà interiore, oltre il deserto del formalismo e delle regole.

 

 

 

La Vita del Beato Romualdo

di San Pier Damiano

 

Prologo

Contro di te, o mondo immondo 1, io devo protestare! Tu vanti una turba insopportabile di stolti sapienti, loquaci con te e muti con Dio. Hai tanti superbi che s’innalzano arrogantemente per la loro vana eloquenza o per la loro filosofia vuota. Ma non hai nessuno che se la sente di documentare cose utili alla edificazione del prossimo e tramandarle così ai posteri. Nei tuoi tribunali hai tanti avvocati che sanno patrocinare, con lunghe orazioni, liti concernenti affari secolari o contese processuali. Ma nella santa Chiesa non hai nessuno che sia in grado di illustrare per iscritto le virtù e le gloriose azioni di un solo santo. Hai tanti sapienti a far del male, ignoranti però a fare il bene [cf. Geremia 4,22] 2.

Sono passati ormai quasi quindici anni da quando il beato Romualdo lasciò il peso della carne per passare al regno celeste. Ebbene, tra tanti sapienti, finora non ce n’è stato uno che abbia raccolto in una narrazione storica almeno alcune delle molte glorie della sua vita ammirabile, nessuno che, venendo incontro alla più viva devozione dei fedeli, abbia trasmesso alla santa Chiesa dei testi da proclamare nell’ufficiatura per l’utilità di tutti.

Per me sarebbe stato più utile mantenere il mio proposito di restarmene in un angolo della mia cella a considerare assiduamente i miei peccati, anziché tessere la storia della virtù di un altro. Sarebbe stato più giusto, per me, piangere sulle tenebre dei miei errori anziché offuscare l’insigne splendore di quella santità con l’imperizia di questa mia narrazione. Tuttavia, in ogni periodo dell’anno e specialmente per la sua festa, vengono alla sua tomba folle di fedeli da terre lontane e assistono ai miracoli che Dio compie per mezzo di lui. Hanno il desiderio ardente di ascoltare il resoconto della sua vita, ma tale resoconto non esiste, e così non possono ascoltarlo.

Non è senza ragione, perciò, se mi sono preoccupato che la sua vasta fama, ancora così popolare, non finisca del tutto dimenticata con il passare degli anni. Così, mosso da questa preoccupazione e sentendomi vincolato dalle richieste dei fratelli e dalla carità verso di loro, eccomi qui a mettere per scritto ciò che ho saputo di quell’uomo ammirabile dai suoi egregi discepoli; tenterò, con l’aiuto di Dio, di descrivere l’inizio, il corso e la fine della sua vita.

Non starò a tessere una storia; non sono all’altezza di farlo. Voglio piuttosto lasciare come una breve testimonianza, quali che siano i dettagli di forma letteraria con cui tenterò di scrivere.

E innanzitutto desidero far sapere ai miei lettori almeno questo. In questa piccola narrazione io darò poco spazio ai miracoli compiuti per mezzo di lui 3, mentre è mia intenzione riportare quanto in un modo o nell’altro può servire all’edificazione, ossia il genere di vita da lui condotto. Certo, il beato seppe talmente preservarsi dal vento della vanagloria sotto il riparo dell’umiltà da nascondere con la massima cura ciò che lo rendeva ammirabile agli occhi degli uomini. Ma, se anche non avesse compiuto alcun miracolo, non avrebbe meritato minore venerazione a motivo della vita ammirabile che condusse. Del resto, anche del precursore del Signore non si legge che abbia operato miracoli, eppure la Verità in persona attesta che tra i nati di donna non ci fu nessuno più grande di lui 4.

Ci sono persone che credono di ossequiare Dio, inventando menzogne per ingigantire le virtù dei santi. Non sanno che il nostro Dio non ha bisogno di ricorrere alla menzogna e pensano di compiacerlo con discorsi falsi, mettendo così da parte la Verità, cioè lui stesso. Ad essi si riferisce la giusta accusa di Geremia: «Hanno abituato la lingua a dire menzogne, si sono sforzati ad agire iniquamente» [Geremia 9,4] 5.

Potrebbero riferire agevolmente quel poco di verità che era stato loro trasmesso, e invece si affaticano a raccontare cose che essi stessi non conoscono. E quanto più pretendono di farsi soccorritori di Dio, tanto più lo combattono, perché le loro sono false testimonianze. L’Apostolo infatti così attesta: «Se Cristo non è risuscitato, allora è vana la nostra predicazione ed è vana la vostra fede», e aggiunge: «E noi risultiamo falsi testimoni di Dio, perché contro Dio abbiamo testimoniato che egli ha risuscitato Cristo, mentre non lo ha risuscitato» [I Corinzi 15,14-15]. Vedendomi costretto a scrivere quasi contro voglia, ho premesso queste osservazioni. Ma ormai, con l’aiuto di Dio e per la preghiera di colui di cui parliamo, diamo inizio alla narrazione.

 

 

1. Romualdo si reca al monastero di Classe; fa penitenza per l’omicidio commesso dal padre.

Nel secolo X la vita umana era poco rispettata. Gli uomini erano abituati a risolvere le loro liti con la violenza, perché era quasi del tutto assente dalla società e dalla chiesa la cultura del dialogo e della non-violenza. I canoni ecclesiastici prescrivevano appena quaranta giorni di penitenza per gli omicidi: a noi pare un’inezia, ma ai canonisti del tempo pareva sufficiente. Altro che «rispetto per la vita»!

Il primo capitolo della VR ci rivela due tratti del carattere di Romualdo: era un uomo molto sensibile ai valori vitali (la bellezza della natura, il caro prezzo della vita umana) e molto impulsivo nell’adempiere i dettami della propria coscienza (un uomo di coscienza s’inorridisce del peccato altrui ma normalmente non si sente obbligato a espiarlo). Tali caratteristiche personali potevano essere considerate debolezze da parte degli uomini della casta aristocratica-militare cui apparteneva il giovane Romualdo, ma sono proprio esse il fondamento umano della sua santità.

 

Originario di Ravenna, Romualdo discendeva da illustrissima famiglia ducale. Nell’adolescenza cominciò a sentire le inclinazioni del peccato della carne, vizio che a quell’età suole assalire con più forza gli uomini, specie se ricchi 6. Con la sua mente era però dedito a Dio: cercava assiduamente di sollevarsi e si proponeva di attuare qualcosa di grande. Ad esempio, se qualche volta si dedicava alla caccia e gli capitava di trovare un ameno angolo di bosco, subito gli si accendeva l’animo del desiderio di un eremo e diceva tra sé: «Come sarebbe bello abitare da eremiti fra questi recessi del bosco! Qui davvero si troverebbe quiete da frastuono mondano!». Così, ispirata dal cielo, la sua mente, come per un presagio, si andava innamorando di ciò che un giorno avrebbe messo in opera.

Suo padre si chiamava Sergio. Era un uomo fortemente interessato alle realtà mondane e assorbito completamente dagli affari. Egli serbava inimicizia verso un suo parente, essendo sorti degli attriti per una certa proprietà. Vedendo che in quella contesa suo figlio Romualdo rimaneva indifferente, anzi era in profonda apprensione per l’eventualità di un fratricidio, prese a minacciare di privarlo dell’eredità se avesse persistito nel suo atteggiamento.

 Ma perché dilungarmi? Alla fine, le due parti nemiche corsero fuori di città a regolare la lite, impugnarono le armi e ingaggiarono un combattimento. E mentre si guerreggiava dall’una e dall’altra parte, ad un tratto il nemico di Sergio finì ucciso per mano di costui.

 Romualdo non aveva inflitto nessuna ferita all’ucciso. Tuttavia, per il fatto stesso di essere stato presente, si accollò la penitenza di quel grave delitto. Ben presto si recò al monastero di Sant’Apollinare in Classe 7 e lì rimase in lutto per quaranta giorni, come è uso per un omicida.

 

 

2. S. Apollinare appare a Romualdo il quale, mosso dallo Spirito santo, si fa monaco.

In quei tempi il monastero di S. Apollinare (detto «in Classe» perché una volta in quel luogo c’era il porto marittimo e la flotta) era la comunità monastica più importante della zona. Ma alla sua importanza socio-politica non corrispondeva un serio impegno spirituale da parte dei monaci.

 A Classe Romualdo incontra un certo «converso»: il termine indica un uomo che (caso piuttosto raro) prende l’abito monastico da adulto. Nei monasteri dell’epoca quasi tutti i monaci sono dei nutriti, ossia bambini o ragazzi donati alla comunità dai rispettivi genitori; cresciuti in monastero quasi tutti preferiscono rimanervi per sempre.

L’anziano fratello esorta Romualdo (a vent’anni già un uomo adulto) a seguire il proprio esempio e farsi monaco, ma il giovane, malgrado il suo carattere impulsivo, non si lascia facilmente convincere, neanche dopo le due visioni di S. Apollinare, primo pastore della chiesa ravennate. Non è che Romualdo non crede nelle visioni; la sua esitazione è dovuta al fatto che non ha ancora sentito la voce della sua coscienza. Alla fine si fa monaco, in risposta non alle visioni ma all’amore che lo Spirito Santo accende nel suo cuore.

Con la raccomandazione di Onesto, già abate di Classe e vescovo di Ravenna dal 971, Romualdo riceve l’abito. Quindi la data dell’ingresso in monastero di Romualdo si deve collocare fra il 972 e il 975.

 

Nel monastero di Classe, mentre si mortificava nella più rigorosa penitenza, Romualdo cominciò a intrattenersi a colloquio ogni giorno con un converso, che gli rivolgeva buoni ammaestramenti, sia pure nei limiti del suo sapere. Costui lo esortava di frequente a lasciar da parte la vita secolare e a scegliere immediatamente la vita monastica, senza però riuscire a convincerlo.

Un giorno, conversando del più e del meno, gli lanciò questa battuta gioviale: «Se ti mostrerò Sant’Apollinare nel suo aspetto corporeo e realmente visibile, che premio mi darai?» Romualdo gli rispose: «Mi impegno irrevocabilmente a non rimanere più nel mondo, non appena avrò veduto il beato martire». Allora il converso invitò Romualdo a non andare a dormire la notte seguente e a vegliare in preghiera con lui nella chiesa. Così nel silenzio notturno, rimasero entrambi a lungo in preghiera. Ed ecco, verso il primo canto del gallo, S. Apollinare, sotto lo sguardo dei due, uscire di sotto l’altare che è al centro della chiesa dedicato alla beata vergine Maria. Fu visto uscire dalla parte orientale, dove si trova la lastra di porfido.

Immediatamente tutta la chiesa si riempì di luce splendente, come se il sole avesse concentrato fra quelle pareti il fulgore dei suoi raggi. Il martire, stupendamente adornato delle vesti sacerdotali e con in mano un turibolo d’oro, incensò allora tutti gli altari della chiesa. Finito di incensare ritornò subito al luogo da cui era uscito, e scomparve anche la luce che lo aveva accompagnato.

Fu così che il converso come duro esattore prese ad insistere con forza e ad assillare Romualdo perché mantenesse la promessa. Romualdo, però, era ancora restio e chiese di poter osservare una seconda volta quella visione. E un’altra notte, allo stesso modo, rimasero in preghiera e videro il beato martire in tutto come la prima volta.

Da allora, quando capitava una discussione sul corpo di quel martire, Romualdo affermava risoluto che si trovava deposto in quella chiesa e per tutta la vita il santo non cessò di presentare la sua testimonianza 8.

Romualdo aveva l’abitudine di sostare spesso in orazione davanti all’altare maggiore della chiesa e là, quando i fratelli si ritiravano, pregava Dio con molti gemiti. Qualche giorno dopo la visione, mentre si trovava a pregare con grande concentrazione, ad un tratto lo Spirito Santo tanto infiammò il suo cuore con il fuoco dell’amore divino che, di colpo, egli proruppe in pianto e non riuscì a frenare le sue lacrime abbondanti. Prostratosi ai piedi dei monaci chiese, con desiderio indescrivibile, l’abito monastico. I monaci, però, temendo la durezza di suo padre, non osarono aprire la porta alla sua conversione. Era allora sulla cattedra arcivescovile di Ravenna, Onesto, già abate del cenobio di Classe. Senza perder tempo, Romualdo si recò da lui e gli manifestò il desiderio che aveva nel cuore. Ed egli, entusiasta, al santo desiderio di Romualdo aggiunse lo stimolo della sua esortazione 9 e ordinò ai fratelli di accoglierlo senza indugio nella loro comunità. E i monaci, rassicurati da tale protezione, accolsero senza paura Romualdo e gli diedero l’abito monastico. Così egli trascorse quasi tre anni in quel monastero.

 

 

3. Alcuni monaci, ripresi da Romualdo, lo vogliono uccidere.

I tempi erano duri e gli uomini rozzi, anche in monastero. I vecchi istinti barbarici erano mal combinati con i residui della civiltà greco-romana e non ancora addolciti dalla mitezza evangelica. Quindi non c’è da meravigliarsi se qualche monaco, infastidito da un novizio piuttosto presuntuoso e indiscreto, si mette in testa di ucciderlo.

Il fervore del novizio Romualdo, infatti, non è tutto virtù. Più tardi il maestro Romualdo metterà in guardia i propri discepoli contro la presunzione, indicandola come un grave pericolo per la vita monastica ed eremitica.

 

Romualdo si rese conto che là alcuni vivevano con rilassatezza percorrendo strade larghe e pertanto a lui non sarebbe stato possibile intraprendere l’ardito sentiero della perfezione che il cuore gli suggeriva. Cominciò a chiedersi seriamente che cosa fare, ed era preso dal fluttuare di mille pensieri.

Egli presumeva di riprendere duramente chi viveva con leggerezza e di invocare spesso i precetti della regola per smascherarli. Insisteva nel redarguire i loro vizi, quelli invece neanche si curavano delle parole di un giovane novizio. Alla fine, però, non tollerarono più tale affronto e, poiché si infischiavano di correggersi, cominciarono ad accordarsi per eliminare il loro accusatore.

Romualdo, la notte, soleva alzarsi prima degli altri fratelli e, se trovava ancora chiusa la porta dell’oratorio, si tratteneva in preghiera all’interno del dormitorio stesso. Questo era al piano superiore, costruito come un solaio. Istigati dal diavolo, quei figli di Caino decisero che, non appena Romualdo si fosse alzato come al solito prima degli altri, essi lo avrebbero buttato a testa in giù da una finestra 10.

Uno di quelli che erano al corrente della congiura lo fece sapere a Romualdo. Questi, da allora, pregò il Padre suo nel segreto del suo cuore, tenendo chiusa la porta della bocca 11, e schivò il pericolo incombente. Così evitò per sé di essere precipitato con il corpo e ai fratelli chiuse la voragine di iniquità perché non cadessero nella morte dell’anima.

 

 

4. Romualdo lascia il monastero e va ad abitare con l’eremita Marino.

Lasciato il monastero con il consenso dell’abate, Romualdo naviga verso Venezia, ove si sottopone alla scuola di un vecchio eccentrico chiamato Marino. Il testo su cui viene istruito Romualdo è il Salterio, che Marino canta per intero tutti i giorni. Ma presso l’eremita autodidatta il giovane monaco ancora non trova la formazione che a Classe cercava e non trovò.

 Ecco il punto dell’intero capitolo: senza polemizzare con nessuno, S. Pier Damiano afferma chiaramente che, secondo lui (e probabilmente anche secondo S. Romualdo), una vita eremitica autentica (cioè autenticamente cristiana) è impossibile senza la formazione monastica.

 

Nel suo animo l’amore per la perfezione andava crescendo di giorno in giorno, ma il suo cuore non riusciva a trovare riposo. Sentì dire allora che nella zona di Venezia c’era un uomo spirituale, Marino, che conduceva vita eremitica. Ottenuto, fin troppo facilmente, il consenso dell’abate e dei fratelli, si recò in naviglio da quell’uomo di Dio e stabilì di sottoporsi, con la più umile e sincera dedizione, al suo governo.

 A parte le altre virtù, Marino era un uomo di animo semplice e di purezza davvero sincerissima. Non aveva ricevuto alcun ammaestramento di vita eremitica; l’aveva abbracciata seguendo soltanto l’impulso della propria buona volontà. Seguiva poi questo regime di vita: per tutta la durata dell’anno, in tre giorni feriali della settimana mangiava mezza fetta di pane e un piccolo pugno di fave, negli altri tre prendeva con sobrietà vino e minestra. Ogni giorno cantava l’intero salterio. Era però troppo rozzo e del tutto privo di iniziazione alla vita solitaria, come più tardi riferiva sorridendo lo stesso beato Romualdo. Il più delle volte, quando usciva dalla cella, se ne andava salmodiando insieme al discepolo qua e là per la distesa dell’eremo. Ora cantava venti salmi sotto un albero, ora trenta o quaranta sotto un altro.

 Romualdo aveva lasciato il mondo da illetterato. Così, quando apriva il salterio, stentava a sillabare i versetti che toccavano a lui e quel dover fissare di continuo gli occhi in basso gli procurava un fastidio insopportabile 12. E Marino, che sedeva di fronte a lui, lo picchiava molto spesso sulla parte sinistra del capo con la bacchetta che teneva nella mano destra. Dopo aver ricevuto molte percosse, Romualdo, costretto dalla necessità, disse umilmente: «Maestro, per favore, d’ora in avanti percuotimi sulla tempia destra, perché dall’orecchio sinistro sto ormai perdendo completamente l’udito». Allora Marino, meravigliato di tanta pazienza, mitigò la sua severità poco discreta 13.

 

 

5. Romualdo segue l’abate Guarino e il doge di Venezia all’abbazia di Cuixá.

Siamo a Venezia, fra il 976 e il 978. In questo capitolo Pier Damiano cade in diversi errori storiografici.

 1. Il predecessore di Pietro Orseolo quale doge non fu Vitale bensì Pietro Candiano IV (il cui fratello - Vitale appunto - divenne doge dopo le dimissioni dell’Orseolo). E fu Pietro Candiano che sposò Gualdrada, figlia di Uberto, marchese di Toscana, e sorella di Ugo successore del padre nella Marca.

 2. Altri documenti più vicini agli eventi descritti non fanno di Pietro Orseolo un cospiratore nel complotto contro il predecessore. Il fatto è che il popolo intero insorse contro Pietro Candiano perché egli, approfittando dell’alleanza con il Marchese di Toscana e con l’imperatore II, aveva assunto poteri dittatoriali.

3. Pietro Orseolo non possedeva il governo del ducato di Dalmazia (l’attuale Istria in Croazia). Fu suo figlio (Pietro Orseolo II, successore di Vitale Candiano V), a conquistare questi territori per Venezia.

 In realtà, Pietro Orseolo è soltanto un testimone dell’uccisione del predecessore, come Romualdo davanti al duello fra il padre e il loro parente. Da doge, l’Orseolo - uomo di carattere mite e quasi monacale, che già ha fatto voto di castità - mise pace tra le parti contendenti, garantì immunità e libertà a Gualdrada, moglie del defunto Candiano, e cercò di cancellare tutti i segni della rivolta. Da Costantinopoli chiamò architetti e artigiani e iniziò la costruzione dell’attuale basilica di S. Marco, sulla pianta della chiesa dei Santi Apostoli nella capitale bizantina. Fece innalzare anche il famoso campanile, di cui oggi si vede la moderna ricostruzione.

 L’abate Guarino di Cuixá (o Cuxa, nei Pirenei orientali allora sotto i conti di Barcellona), di ritorno da un pellegrinaggio a Gerusalemme, viene incaricato da Ottone II a investigare la situazione a Venezia. L’abate trova l’Orseolo già disposto a dimettersi e desideroso di assumere l’abito monastico come penitenza per un fatto di sangue di cui lui, però, non fu direttamente responsabile (come aveva fatto Romualdo, entrando nell’abbazia di Classe).

 Dal momento che Romualdo svolge un ruolo, seppure minore, nell’allontanamento dell’Orseolo da Venezia, Ugo di Toscana, alleato dei Candiani, si sente in debito verso di lui e come segno della sua gratitudine finanzierò la prima fondazione romualdina (vedi cap. 18).

 

A quell’epoca governava il ducato di Dalmazia Pietro detto Orseolo. Era riuscito a salire a quell’alta dignità favorendo gli uccisori del suo predecessore [Pietro] Vitale Candiano. Spero di non allontanarmi dal mio argomento se mi soffermerò brevemente sulla causa di tale assassinio. Candiano aveva preso in moglie la sorella del marchese Ugo il grande e, volendo emulare il cognato, aveva assoldato molti uomini d’arme dalla Lombardia e dalla Toscana, spendendo per i loro stipendi denaro a profusione.

Gli abitanti di Venezia non sopportarono la cosa e tramarono di irrompere di sorpresa, armi in pugno, nel palazzo del doge e di uccidere di spada, senza esitazione, lui con tutto il suo casato. Ma il doge era stato informato della congiura e, di giorno e di notte attorniato di guardie, riusciva a vanificare le macchinazioni dei suoi nemici. Questi, dopo vari tentativi, non essendo mai riusciti a mandare in porto il loro piano, ebbero l’idea di appiccare fuoco alla casa di Pietro Orseolo, che era attigua al palazzo ducale, e così impadronirsi del doge e dare alle fiamme tutta la sua casa. Al fine di attuare questo progetto, si rivolsero all’Orseolo, che già aveva partecipato alle loro trame, per ottenere il suo consenso. Fu pattuito che, come contraccambio per una sua casa che doveva bruciare, avrebbero sottomesso l’intera Venezia alla sua signoria. Una volta eliminato l’uomo odiato, avrebbero insediato Pietro Orseolo come doge al suo posto. Ecco in che modo l’Orseolo aveva ottenuto la supremazia sul regno di Dalmazia. Tuttavia, dopo aver soddisfatto la sua ambizione, per grazia divina provò pentimento nel cuore.

 Dalla terra di Catalogna 14 un abate venerabile, Guarino, era solito peregrinare a scopo di preghiera per le varie regioni del mondo. E quando giunse anche dal doge, questi gli chiese subito consiglio per scampare alle tristi conseguenze del suo grave delitto. Allora furono convocati Marino e Romualdo e i tre, unanimi, gli ingiunsero di abbandonare il mondo, oltre che il ducato da lui occupato con un crimine, e di sottomettersi alla potestà altrui, poiché si era impossessato iniquamente dell’autorità di un altro.

 Ma quell’uomo aveva un potere troppo alto e non osando manifestare apertamente la sua conversione, reputò allora più prudente attenersi a questo piano. Si approssimava la festività di un santo martire titolare di una basilica che egli possedeva quando era ancora privato cittadino. Il giorno prima, egli mandò avanti sua moglie, con l’ordine di accudire all’abbellimento della chiesa e di preparare uno sfarzoso banchetto per coloro che lo avrebbero accompagnato là il giorno seguente, dando così l’impressione che egli l’avrebbe presto raggiunta. Rimasto lontano dalla moglie, prese quanto denaro gli sembrò opportuno e insieme a Giovanni Gradenigo, suo parente implicato nella congiura, e ai tre santi uomini predetti salì su una nave e se ne fuggì, grande convertito, in Catalogna, al monastero dell’abate Guarino. Pietro e Giovanni diventarono monaci nel cenobio di S. Michele, Marino e Romualdo si stabilirono non lontano dal monastero e ripresero la vita solitaria a cui erano abituati. Dopo appena un anno, si aggregarono a quest’ultimi anche gli altri due fratelli predetti per vivere la medesima loro austera solitudine.

 

 

6. Nell’eremo Romualdo e Giovanni Gradenigo vivono del lavoro delle loro mani.

Per dipingere il ritratto di Romualdo eremita durante il periodo cuixano, di cui aveva solo pochissime notizie, Pier Damiano prende come modello alcune fonti agiografici 15.

 Spesso troviamo Romualdo a condividere la cella eremitica con un altro; questa, si può dire, è la sua prassi ordinaria. Prima a Venezia con Marino, poi a Cuixá con Giovanni Gradenigo, Romualdo dimora nella solitudine ma non è mai solo. Faranno bene a tener presente questo fatto coloro che oggi vorrebbero essere eremiti, e a distinguere nettamente la prassi della solitudine secondo la tradizione monastica cristiana dalla privacy dell’uomo odierno, individualista e narcisista.

 

Frattanto, con ardente desiderio, Romualdo cresceva mirabilmente di virtù in virtù e sorpassava sempre più gli altri fratelli nel cammino della vita monastica. Così, tra i fratelli, qualunque cosa spirituale o corporale egli decidesse, per comune accordo si accettava sempre la sua volontà. Persino Marino si rallegrava del provare devozione verso quel Romualdo, di cui poco prima era stato superiore.

 Per un anno continuo Romualdo non prese altro cibo che un piccolo pugno di ceci lessi. Poi, per tre anni, lui e Giovanni Gradenigo vissero del lavoro delle proprie mani, zappando e seminando grano. E dire che, lavorando da agricoltori, raddoppiavano il peso del loro digiuno.

 

 

7. Romualdo subisce le tentazioni del diavolo.

Di nuovo, mancando di informazioni precise, Pier Damiano ricorre alle fonti tradizionali per narrare le lotte interiori che Romualdo doveva affrontare durante i suoi primi anni nell’eremo 16.

 

Il diavolo assaliva Romualdo, specialmente agli inizi della sua conversione, introducendo in lui tentazioni numerose e diverse, distoglieva la sua mente con molte sollecitazioni ai vizi. Ora gli ricordava quali e quante cose avrebbe potuto procurarsi nel mondo un uomo coraggioso come lui. Ora, quanti beni, ancora in vita, aveva lasciato in appetibile eredità a dei parenti ingrati. Ora lo accusava di dedicarsi ad attività meschine senza valore. Ora, insinuandogli orrore per il suo grande impegno, gli prometteva una vita più lunga.

 Quante volte bussò alla sua cella, lo svegliò che si era appena addormentato e lo fece vegliare per tutta la notte, dandogli a credere che ormai mancasse poco all’alba! Per quasi cinque anni, di notte, il diavolo gli si posava sui piedi o sulle ginocchia e con l’apparenza del suo peso gli impediva di girarsi da una parte o dall’altra. Come spiegare quante bestie frementi di vizio egli dovette sopportare? E quante volte mise in fuga con le più dure invettive gli spiriti maligni che gli si presentavano?

 Addirittura, accadeva che, se un fratello per qualche necessità si avvicinava alla sua cella in tempo di silenzio, il soldato di Cristo, pronto alla battaglia, pensava che, al solito, si trattasse del diavolo e inveiva a chiara voce dicendogli: «Dove vorresti arrivare, o ributtante? Ti hanno buttato giù dal cielo, che cosa cerchi in un eremo? Passa via, cane immondo! sparisci, antico serpente».

 Da queste e da simili parole, ben si capiva che egli si trovava sempre in combattimento con gli spiriti maligni, e munito com’era delle armi della fede, restava pronto a scendere in campo contro le provocazioni nemiche.

 

 

8. Romualdo studia le Vite dei Padri; Pietro Orseolo profetizza il destino del figlio.

Marino, l’eremita autodidatta, si era inventato una regola per il digiuno, per la salmodia e per le veglie. Romualdo, invece, basava il suo modo di vivere su criteri obiettivi, cioè su quanto coglieva dalla lettura di libri presi dalla ricca biblioteca del monastero di Cuixá. In seguito, Romualdo avrebbe sempre rimandato i suoi discepoli alle fonti della tradizione monastica; non scrisse mai una propria regola, né mai ordinò: «Fate come vi dico io». Le norme scritte delle comunità da lui fondate erano e sono sempre il Vangelo e la Regola di S. Benedetto 17.

 

Una volta, leggendo il libro delle Vite dei Padri, gli accadde di imbattersi nel passo in cui si parla di quei fratelli che per tutta la settimana digiunavano nella solitudine e poi, il sabato si ritrovavano insieme e quel giorno e la domenica sospendevano il rigore del digiuno e si cibavano con una certa larghezza. Immediatamente, Romualdo abbracciò quel regime di vita e vi si atteneva in continua austerità per una quindicina d’anni o forse più.

 Il doge Pietro, però, era abituato a molte prelibatezze e, sotto il peso di un digiuno così stretto, per poco non soccombeva. Si prostrò allora umilmente ai piedi del beato Romualdo e, avutone l’ordine di rialzarsi, con rossore dovette rivelare il suo bisogno. «Padre, disse, ho un corpo così grande che, pur considerando i miei peccati, non posso sostentarmi con mezza pagnotta secca». Romualdo con paterna compassione verso la sua fragilità, aggiunse ancora un quarto di pane 18 alla solita razione. Tese così una mano di misericordia al fratello che stava scivolando perché non venisse meno e gli dette forza perché percorresse agevolmente il cammino di vita che aveva intrapreso 19.

 Una volta venne a visitare Pietro il suo omonimo figlio, un uomo di grande esperienza nelle cose del mondo. Il padre, non saprei se per spirito di profezia o per una rivelazione, gli predisse il suo futuro: «Figlio mio, io so, senza alcun dubbio, che ti nomineranno doge e avrai successo. Tu, però, cerca di salvaguardare i diritti delle chiese del Cristo e di non distaccarti dalla giustizia nei riguardi dei tuoi sudditi, per amore o per odio verso qualcuno».

 

 

9. Anni dopo il Maestro Romualdo insegna la via della discrezione.

Con questo capitolo Pier Damiano abbandona l’ordine cronologico e ci porta avanti almeno quindici anni (vedi il capitolo precedente); siamo al tempo della piena maturità del Maestro Romualdo, fra il 993 e il 998, nel monastero di S. Apollinare in Classe o in un luogo vicino (vedi cap. 19). Il contenuto del cap. 9 è tratto quasi per intero dalle grandi fonti monastiche.

 

Tempo dopo, Romualdo lesse che S. Silvestro, vescovo di Roma, aveva introdotto l’uso del digiuno al sabato, giorno di vigilia della santa pasqua. Subito, allora, egli spostò dal sabato al giovedì la sospensione del digiuno. Venendo così incontro alla debolezza degli infermi, con giusto senso di misura rese più facile il protrarsi del digiuno e a tutti coloro che praticano la vita solitaria fissò questa norma: ciascuno riconosca di aver soddisfatto al digiuno eremitico se durante la settimana rispetterà l’astinenza dei tre e due giorni consecutivi, mentre il giovedì e la domenica potrà cibarsi, con azione di grazie, di verdure e di qualsiasi liquido vegetale, fuorché nelle due quaresime dell’anno, quando sia lui che quasi tutti i suoi discepoli erano soliti estendere il digiuno a tutta la settimana.

 Era veramente conveniente che un uomo sempre desideroso di lodare Dio con cori e timpani, facesse risuonare alle orecchie della luce infinita le più belle consonanze musicali di ottava, di quinta e di quarta.

 Quanto al digiuno totale, consistente nel passare la giornata senza cibarsi di nulla, sebbene egli lo praticasse molto spesso, agli altri lo proibì in modo assoluto 20. Se uno tende alla preghiera, diceva, è quanto mai conveniente che mangi ogni giorno e conservi sempre un po’ di fame. Prendendo quest’abitudine, la carne sopporterà con leggerezza ciò che sembra pesante ai novizi all’inizio della loro conversione. Secondo lui, valeva poco impegnarsi temporaneamente in grandi cose, se poi uno non vi perseverava con generosità.

 Insegnava ad avere temperanza e grande discrezione nelle veglie 21, perché non accadesse di cedere all’assopimento proprio dopo gli uffici notturni. Il sant’uomo era così poco indulgente con il sonno del mattino, che se uno gli confessava di essersi addormentato dopo la veglia dei dodici salmi o, peggio, verso l’alba, non poteva ricevere da lui il permesso di celebrare quel giorno la santa Messa.

 Diceva anche che è meglio, se possibile, cantare un solo salmo di cuore e con compunzione, piuttosto che sciorinarne cento fantasticando 22. Ma se a uno questa grazia non era stata donata compiutamente, egli lo esortava a non perderne la speranza e, tanto meno, ad allentare il ritmo dell’esercizio corporale, nell’attesa che colui che aveva dato la volontà, donasse un giorno anche la possibilità effettiva.

 L’intenzione della mente, una volta fissata su Dio, sia l’unica custode dell’incenso della preghiera, che la brezza dei pensieri provenienti dall’esterno perturberebbe. Perché quando l’intenzione è retta, un pensiero sopraggiunto involontariamente non fa troppa paura 23.

 

 

10. Romualdo difende i diritti di un povero contadino, suo amico.

Torniamo ai tempi in cui Romualdo era a Cuixá. Due temi importanti emergono in questo capitolo: Romualdo sta sempre dalla parte dei poveri, contro coloro che detengono il potere politico ed economico; Dio interviene nella storia di ogni uomo per «ricolmare di beni gli affamati e rimandare i ricchi a mani vuote» (cf. Luca 1, 53).

Vedi episodi simili ai capitoli 36, 43, 54, 65, 71.

 

Sempre durante il suo soggiorno in Catalogna, Romualdo aveva stretto familiarità con un agricoltore, che a volte gli fabbricava gli attrezzi necessari per la cella e, in caso di bisogno pur nella sua povertà, gli forniva con gioia il necessario, ricco com’era di carità, più che di beni.

Il contadino aveva una vacca, che un conte superbo e borioso fece rapire dai suoi servi, con barbara prepotenza. Poi, con ingordigia, se ne fece preparare la carne per il pranzo. Il contadino si recò in fretta alla cella di Romualdo, con grida strazianti gli fece conoscere la sua disgrazia, lamentandosi che la speranza sua e della sua famiglia gli era stata portata via. San Romualdo inviò subito dal conte un suo messaggero e gli fece chiedere, con umili suppliche, di restituire al povero il suo animale. Ma il conte, gradasso e ostinato, si fece beffe di quelle preghiere e affermò: «Questo stesso giorno intendo assaggiare il sapore dei grassi lombi di quella vacca!».

All’ora di pranzo, fu apparecchiata la mensa e fu servita la carne della vacca. Ma ormai si era avvicinata l’esecuzione del castigo divino. Proprio mentre cominciava a mangiare, il conte staccò un boccone dalla lombata e se lo mise in bocca. Questo gli rimase attaccato alla gola e, nonostante gli sforzi, egli non riuscì né a ingerirlo né a sputarlo.

Così, essendo otturate le vie respiratorie, finì di morte terribile sotto gli occhi dei suoi. Ciò di cui avrebbe voluto saziarsi contro il desiderio del servo di Dio, per giusta sentenza di Dio gli fece perdere la vita carnale, ancora a digiuno 24.

 

 

11. Un conte si confessa da Romualdo.

Oliba Cabreta (il «Conte Olibano» di Pier Damiano) era figlio di Mirone e fratello di Seniofredo, conti di Barcellona. Si confessa da Romualdo, ormai sacerdote, che gli impone come penitenza di ritirarsi in monastero. Nel febbraio del 988 il conte fa tre importanti donazioni ai monasteri catalani (la congregazione monastica presieduta dall’abate Guarino); siamo verso la fine della permanenza di Romualdo a Cuixá.

 

In quelle terre c’era anche un altro conte, di nome Olibano, sotto la cui giurisdizione era anche il monastero dell’abate Guarino. Sebbene elevato a un’altissima dignità terrena, egli era gravato dal peso di molti peccati. Un giorno andò a visitare Romualdo. Lasciò fuori della cella le altre persone e prese a narrargli solo a solo, a mo’ di confessione, tutta la serie dei suoi trascorsi. Romualdo ascoltò tutto e gli rispose: «Per te non c’è altro modo di essere salvato che lasciare il mondo ed entrare in un monastero».

 Lì per lì il conte si sentì turbato e disse «Gli uomini spirituali che mi conoscono bene sono di tutt’altro parere. Non mi avrebbero mai consigliato qualcosa di tanto insopportabile». Così, fece venire i vescovi e gli abati che l’avevano accompagnato e, riunitili, cominciò a chiedere se le cose stessero davvero come attestava il servo di Dio. Tutti, a una sola voce, confermarono il parere di Romualdo e si scusarono di non averne mai parlato fino allora al conte perché impauriti. Il conte allora li fece allontanare tutti e, in gran segreto, stabilì con Romualdo di recarsi a Montecassino con la scusa di un pellegrinaggio e di porsi irrevocabilmente al servizio di Dio nel monastero di S. Benedetto.

 

 

style='mso-bidi-font-size:10.0pt;'> 12. Sergio, dopo il suo esodo dal peccato,vuole tornare alla schiavitù di prima.

Anche il padre di Romualdo si fa “converso” nel monastero di S. Severo vicino Ravenna. La metafora sottostante la sua scelta monastica è l’esodo degli Israeliti dalla schiavitù d’Egitto; di conseguenza il monastero viene visto come il deserto della prova, ma secondo la visione dei profeti d’Israele il deserto è anche il luogo della libertà e dell’intimità con Dio, e il tempo della prova è anche il tempo del fidanzamento.

 

Nel frattempo Sergio, padre di Romualdo, si era fatto monaco. Ma, poco tempo dopo, istigato dal diavolo, si era pentito della sua conversione e stava cercando di ritornare in Egitto. I monaci del cenobio di S. Severo, non lontano dalla città di Ravenna, dove Sergio abitava - sebbene con il corpo, ma non con il cuore - trovarono il modo di informare Romualdo tramite un messaggero.

Egli rimase scosso dal sinistro annuncio e giudicò necessario che fossero l’abate Guarino e Giovanni Gra­denigo ad accompagnare il conte nel suo cammino di conversione, mentre lui correrebbe in aiuto di suo padre che andava verso la perdizione. Il doge Pietro aveva già concluso felicemente i suoi giorni. Pertanto, Romualdo affidava il conte a quei due e raccomandava più in particolare a Giovanni, di cui era supe­riore: «Per obbedienza, non ti separare mai dal conte, anche se Guarino si dovesse allontanare di là».

 

 

13. Romualdo si finge pazzo; riporta a sano consiglio il padre.

In un’epoca così violenta non era impensabile l’omicidio “devozionale”, l’uccisione di un sant’uomo per averne le reliquie. Se Romualdo è deciso di partire, allora unico modo di trattenerlo anella valle di Cuixá è farlo morire.

Questo capitolo si situa probabilmente nel 988 – forse in quaresima – poco dopo la morte di Pietro Orseolo. La finta pazzia di Davide (I Samuele 21,13-14) è citata da Cassiano 25, ma non come esempio da imitare, mentre sia Cassiano che le Vite dei padri vedono l’avidità simulata come un’espressione di umiltà…26

 

Quando sentirono dire che Romualdo si preparava a partire, gli abitanti di quella regione ne rimasero fortemente contrariati. Ragionarono tra loro sul modo di impedirgli di attuare il suo progetto e, nella loro empia venerazione, conclusero che la cosa migliore era mandare dei sicari ad ucciderlo. Visto che non si poteva trattenerlo vivo, almeno avrebbero avuto, con il suo cadavere, un protettore per la loro terra.

Romualdo venne però a saperlo. Allora si rase completamente il capo e, quando gli esecutori del piano si avvicinarono alla sua cella, sebbene fosse appena l’alba, si mise a mangiare ostentando ingordigia. A quella vista, lo credettero impazzito e pensando a una lesione della mente, non si azzardarono a ledere il corpo. Ecco in che modo la prudente pazzia di questo Davide spirituale sconfisse la stolta astuzia dei sapienti secondo la carne. Aveva trattenuto chi voleva peccare e, non temendo la morte, aveva stornato il rischio della morte aggiungendolo al numero dei suoi meriti.

Così ormai gli fu lasciata libertà di azione. Non a cavallo o su un veicolo; ma con in mano soltanto un bastone e a piedi, dall’interno della Catalogna arrivò fino a Ravenna. Qui trovò il padre ormai intenzionato a ritornare al mondo. Allora gli strinse forte i piedi ai ceppi, e lo legò con catene pesanti, lo colpì con dure percosse e, con pio rigore, domò il suo corpo fino a che, con l’aiuto risanatore di Dio, non ebbe riportato la sua mente alla salute.

 

 

14. Sergio vede lo Spirito santo.

Al racconto della finta pazzia di Romualdo segue questo aneddoto, pieno di humour, sulla demenza santa del padre. Il vecchio convertito compie le sue devozioni davanti a un’icona «del Salvatore» - probabilmente una rappresentazione della Trasfigurazione di Gesù. La scena evoca uno stile di pietà che oggi si identifica con la Chiesa d’oriente; ricordiamo i forti legami di Ravenna con Bisanzio, sia sul piano culturale sia sul piano politico.

 

Sergio, ritornato finalmente a sano consiglio, progrediva speditamente nella vita monastica e si correggeva in tutto ciò che prima aveva trascurato con il suo voler tornare indietro. Tra l’altro ora aveva l’abitudine di sostare spesso davanti a un’immagine del Salvatore e, quando era lì solo, pregava con lacrime abbondanti e grande compunzione del cuore.

 Un giorno si era soffermato in orazione con un’attenzione maggiore del solito, quand’ecco una cosa nuova e sconosciuta ai nostri giorni. Ad un tratto, non saprei sotto quale aspetto, gli apparve lo Spirito Santo 27. Sergio gli chiese: «Chi sei?», ed egli gli rispose chiaramente: «Sono lo Spirito Santo». E di colpo, come dirigendosi altrove, si sottrasse al suo sguardo.

Rapito in estasi, ardendo del fuoco di colui che aveva visto, Sergio prese subito a rincorrerlo velocemente nel chiostro del monastero. Ai fratelli che si trovavano lì chiedeva con intenso fervore: «Dove è andato lo Spirito Santo?». Quelli pensarono che fosse impazzito e lo sgridavano con durezza. Ma Sergio affermava di aver visto, senza possibilità di dubbio, lo Spirito Santo e che questi era passato visibilmente davanti ai suoi occhi.

 Subito dopo, colpito da indebolimento dovette mettersi a letto e, nel giro di pochi giorni, chiuse felicemente la sua vita. Ciò senz’altro è una conferma delle parole che Dio disse a Mosè «Un uomo non potrà vedermi e vivere» [Esodo 33,20]. E Daniele quando riferisce di aver contemplato non Dio, ma una visione di Dio, aggiunge: «Rimasi sfinito e mi sentii male per vari giorni» [Daniele 8,27]. Ecco, dunque Sergio, dopo aver visto la vita eterna, cioè Dio, in breve tempo venne meno alla vita temporale.

 

 

15. Giovanni Gradenigo va a Montecassino; si stabilisce nell’eremo accanto al monastero.

Di Giovanni Gradenigo parla S. Bruno Bonifacio di Querfurt nella Vita dei cinque fratelli, cap. 2. Come a Cuixá, così anche a Montecassino c’era accanto al cenobio una colonia di eremiti. Nell’eremo cassinese Giovanni aveva come compagno un ex-abate del monastero, fatto che dimostra quanto la prassi eremitica di S. Romualdo era in armonia con l’ideale benedettino vissuto nelle abbazie riformate dei suoi tempi.

 

Il conte Olibano, intanto, lasciò i suoi beni al figlio. Poi, fece caricare di abbondanti ricchezze quindici bestie da soma e, accompagnato da Guarino, da Giovanni e dallo stesso Marino, si recò al monastero di S. Benedetto. Qui salutò e congedò le persone che erano venute con lui e che si affliggevano con molti lamenti e con amare lacrime, poiché fino all’ultimo non avevano sospettato nulla della sua decisione.

Poco tempo dopo, Marino si recò in Puglia e vi abitò nella solitudine. Ma, ben presto, fu ucciso dai pirati Saraceni.

Ancora dopo un breve periodo, Guarino che era solito pellegrinare per motivi di preghiera e Giovanni, spinto dall’esempio di lui a imitarne quella pratica religiosa decisero concordemente di andare a Gerusalemme. Olibano appena lo seppe, rammaricandosi, si mise a supplicarli piamente e piangendo di non andarsene così, contro la parola data, ma di assisterlo nel servizio di Dio, come era stato ordinato dal beato Romualdo. E aggiungeva: «Almeno tu, Giovanni, ricordati che il tuo maestro mi ha affidato di buon cuore alla tua tutela e ti ha parlato esplicitamente di disobbedienza, qualora tu te ne andassi».

Quelli però insistettero con ostinazione nel loro proposito, lasciarono Olibano e si avviarono in pellegrinaggio. Stavano scendendo dal monte ed erano ormai verso la pianura, quando si fermarono a discutere di cose riguardanti quella circostanza. Nel frattempo il cavallo di Guarino, infuriato, si impennò di scatto e nonostante i tentativi del suo cavaliere, si voltò indietro e con il ferro dello zoccolo colpì Giovanni spezzandogli la tibia.

Gettatosi subito a terra per il troppo dolore, costui si ricordò, ormai tardi, del comando del suo maestro e confessò apertamente: «E’ tutto colpa mia; sono stato perfido e disobbediente». Dalla frattura di una gamba, comprese di aver peccato infrangendo il suo impegno. Lui, dotato di ragione, senza badare alla propria incolumità, era stato disobbediente al maestro e ora un animale privo di ragione non aveva saputo obbedire al suo cavaliere. Allora tornò indietro, chiese di costruirsi una cella vicino al monastero, e rimase lì per una trentina d’anni, ossia finché visse, conducendo vita eremitica.

Ci furono in lui molta carità, umiltà ammirevole, astinenza assai rigorosa, sì, ma anche discreta, tanto che perfino nel monastero nessuno avrebbe saputo dire che genere di digiuno fosse praticato dal sant’uomo.

Tra le altre virtù, aveva in forte antipatia il vizio della diffamazione: ogni volta che qualcuno apriva bocca alla maldicenza, questa immediatamente si rivolgeva contro lui stesso, come quando una freccia, colpito un duro sasso, rimbalza indietro.

Dopo la sua morte, Dio compì alcuni miracoli per sua intercessione.

 

 

16. Romualdo, eremita presso Classe, vince la paura del demonio.

Ecco altri due capitoli che ricalcano la Vita di S. Antonio. Romualdo vive nella solitudine, ma sul terreno appartenente alla sua abbazia; conduce una vita ritmata dalla preghiera liturgica delle Ore. Si noti l’espressione «stava cantando compieta, dum completorium caneret» (Compieta è l’ultima delle sette Ore diurne dell’Ufficio): la salmodia di Romualdo è sempre un canto, mai una “recita”, sia che si tratti dei Salteri devozionali sia della salmodia liturgica secondo la Regola di S. Benedetto, capitoli 8-20.

 

Dopo aver provveduto alla correzione del padre, si era fabbricata una cella nella palude di Classe, in località Ponte di Pietro e lì abitava. Ma dopo un certo periodo, non per paura di ammalarsi o per il fastidio del fetore, ma per non indebolirsi e dover diminuire il rigore dell’astinenza, si trasferì in una tenuta di Classe, presso la chiesa di S. Martino in Selva.

Qui, una volta, stava cantando compieta, e siccome quel luogo un tempo era servito da cimitero, il suo pensiero, come spesso succede, ad un tratto si soffermò su questo fatto. Le fantasticherie più orride gli invasero ben presto l’animo. E mentre la sua mente andava così rimuginando, fecero irruzione nella sua cella degli spiriti maligni che subito lo fecero stramazzare a terra, lo straziarono di botte, vibrarono colpi durissimi sulle sue membra esauste per il continuo digiunare. E in quello scatenarsi di percosse, Romualdo, preso dal pensiero della grazia divina, esclamò: «Caro Gesù, amato Gesù, perché mi hai abbandonato? Mi hai forse consegnato interamente alle mani dei nemici?».

A queste parole, tutti gli spiriti malvagi furono messi in fuga dalla potenza divina. E immediatamente il petto di Romualdo si infiammò di una compunzione così grande dell’amore divino che il suo cuore, come cera, si struggeva in lacrime e, nonostante il suo corpo fosse piagato da tutti quei colpi, non sentiva alcun dolore. Subito dopo, si rialzò da terra sano e vigoroso e, sebbene le sue ferite ancora sanguinassero, riprese il canto del salmo dal versetto stesso in cui lo aveva interrotto. Nel momento in cui i demoni erano entrati, gli aveva sbattuto sulla fronte la finestra della cella. In seguito gli si formò una cicatrice ben visibile, che fu, in tutta la vita del santo, una dimostrazione evidente della ferita subita.

 

 

17. Romualdo caccia via il Maligno.

Di fronte ai demoni Romualdo è un «soldato di Cristo» come S. Antonio Abate e come S. Benedetto 28

 

Irrobustito da frequenti combattimenti, il soldato di Cristo si impegnava ogni giorno a progredire maggiormente, a crescere di vigore in vigore. Migliorando di continuo le proprie forze, ormai non aveva più motivo di temere gli agguati del suo estenuato nemico. A volte, mentre se ne stava in cella, si poteva notare la presenza di spiriti malvagi, costretti ad aspettare a distanza, come intorno a un cadavere ben sorvegliato. Non osavano avvicinarsi ed erano in forma di corvi o di avvoltoi orrendi. Altre volte si presentavano nell’aspetto di un uomo 29 o di differenti animali. L’insigne trionfatore del Cristo li insultava dicendo: «Eccomi, sono pronto, venite! Mostrate il vostro valore, se ne avete! Siete proprio sfiniti? Siete stati sconfitti? Non avete più nessun ordigno per combattere contro questo povero servo di Dio?». Svergognava gli spiriti malvagi con parole come queste e, come fossero state altrettanti giavellotti, li metteva presto in fuga.

Allora il diavolo, visto che non poteva prevalere direttamente sul servo di Dio, ripiegò su metodi più insidiosi. Dovunque il santo si recasse, egli istigava contro di lui l’animo dei suoi discepoli. Se non era stato possibile smorzare l’impeto ardente del suo fervore, avrebbe così potuto mettere un freno alla sua sollecitudine per la salvezza altrui. E se non era possibile che Romualdo si arrendesse al nemico, per lo meno non gli avrebbe impedito di ottenere vittoria sugli altri.

 

 

18. Romualdo edifica un monastero, ma i monaci lo cacciano via a bastonate.

«Dovunque il santo si recasse, [il demonio] istigava contro di lui l’animo dei suoi discepoli». Nel capitolo presente, il Damiano racconta un episodio che illustra tale insidio diabolico.

Dopo il suo rientro in Italia, Romualdo costruisce un monastero in una località vicino a Bagno di Romagna che si chiama Varghereto 30. Pier Damiano lo presenta come la prima fondazione di Romualdo e come un fallimento totale. Pare che Romualdo non ne sia il superiore canonico: questa sarà la sua prassi abituale nelle comunità da lui fondate o riformate. Alla sua riluttanza di governare gli altri fece una sola eccezione, nel 998, quando per ordine dell’imperatore Ottone III egli accettò di essere eletto abate del suo monastero di professione, S. Apollinare in Classe. Ma terrà l’ufficio solo per pochi mesi; anche lì, non potendo far nulla a beneficio degli altri e temendo di perdere la propria anima, rinunziò all’incarico (cf. Vita dei cinque fratelli, cap. 2). Pier Damiano, invece, reputa la preoccupazione di Romualdo per la propria anima come una gravissima tentazione: chiudersi in sé e infischiarsi degli altri lo avrebbe portato davvero alla dannazione.

 

Una volta Romualdo si trasferì presso la località detta Bagno, nel territorio di Sarsina. Vi rimase non poco tempo, vi costruì un monastero intitolato al beato arcangelo Michele 31 e, non lontano, fissò la sua dimora in una cella.

Fu lì che il marchese Ugo gli fece recapitare, per eventuali necessità, sette libbre di monete, che egli accettò, per poterle poi dispensare con larghezza e misericordia. E infatti, quando venne a sapere che un incendio aveva distrutto il monastero di Palazzolo, inviò come aiuto a quei fratelli sessanta soldi, serbando la somma rimanente per scopi analoghi.

I monaci però di S. Michele, avendolo saputo si infuriarono come belve contro di lui, sia perché da un pezzo egli si mostrava contrario su molte cose alle loro abitudini, sia perché, quando gli venivano portate delle offerte, ne spendeva una parte per altri, anziché spenderle tutte per loro. Dopo aver complottato tra loro, irruppero tutti insieme nella sua cella con randelli e stanghe, gli dettero molte percosse, si impadronirono di tutto e lo cacciarono dalle loro terre, dopo averlo coperto d’ignominia.

Messo così al bando, mentre se ne andava e una intensa tristezza calava nella sua mente, concepì dentro di sé questa risoluzione: per l’avvenire avrebbe smesso completamente di curarsi della salvezza altrui, contento soltanto della propria. Ma dopo aver avuto questo pensiero, gli invase l’animo una paura grande: temeva di perire ed essere condannato dal giudizio divino, se davvero si fosse ostinato nella sua risoluzione.

Intanto i monaci, ora che avevano mandato ad effetto la vendetta così a lungo desiderata e si erano come sbarazzati di un grave peso, si elogiavano a vicenda per quello che avevano fatto al servo di Dio e, sedotti da questa gioia, si sfogavano con scherzi e risate sfrenate. E ancora, per festeggiare con la massima allegria la loro soddisfazione, vollero procurarsi cibi di lusso raffinati e abbondanti per farne un banchetto. Ma era d’inverno (cosa che, del resto, ben si addiceva non tanto al cielo stagionale quanto alla loro stessa freddezza). Così uno di loro, che era stato particolarmente crudele verso il soldato di Cristo, pensò di andare a comprare il miele per preparare ai commensali del vino melato. E mentre attraversava il fiume Savio, inciampò sulle assi, cadde giù dal ponte e finì trascinato nel fondo dai gorghi. Giusto giudizio di Dio: fu saziato a morte dall’acqua torbida colui che bramava la dolcezza del miele per un’azione di cui avrebbe dovuto piangere.

La notte, poi, mentre tutti, come di consueto, stavano dormendo, una nevicata abbondante fece improvvisamente crollare su di loro tutto l’edificio, spezzando loro il capo o le braccia o le gambe o altre membra. Uno di loro perse un occhio e dovette giustamente sopportare questa privazione della luce corporea, poiché dividendosi dal prossimo, aveva perduto una delle due luci della carità, seppure aveva conservato l’altra 32.

 

 

19. S. Apollinare ordina a Romualdo di tornare nel monastero di Classe.

L’anno è quasi certamente il 993 (vedi più avanti, cap. 22). Questa nuova visione di S. Apollinare costituisce la seconda vocazione di Romualdo, l’apertura di una nuova fase del suo cammino spirituale e della sua missione di fondatore di comunità, una missione cominciata con insuccesso a Verghereto.

A questo punto andrebbe riletto il cap. 9. La seconda permanenza a Classe fu per Romualdo un periodo di studio e di riflessione; in base a nuove letture egli modifica il proprio modo di vivere e adotta una regola per il digiuno diversa da quella osservata per più di quindici anni. Romualdo, sempre sensibile e impulsivo di carattere, ha ormai acquisito quella virtù che la tradizione monastica considera la madre di tutte le virtù: la discrezione; e con questa ha acquisita la libertà.

 

Una volta il santo abitò non lontano dal Catria. Mentre si trovava lì da diverso tempo, gli apparve il beato Apollinare e con grande autorità gli ordinò di recarsi al suo monastero e di abitarvi. Il santo ritenne giusto non trascurare quel comando; senza indugio abbandonò il luogo in cui abitava e si diresse prontamente dove era stato inviato.

 

 

20. Romualdo dimora nelle Valli di Comacchio.

Invece di parlare della permanenza di Romualdo a Classe o nei pressi del suo monastero, Pier Damiano inserisce qui due aneddoti non databili, localizzandoli in luoghi confinanti con le paludi di Comacchio. Ormai un uomo di mezz’età, Romualdo non sopporta più il clima umido e si ammala. La malattia di Romualdo è probabilmente la malaria; ne avrà altri attacchi nella sua vita (vedi cap. 26).

L’area è stata bonificata nel corso di questo secolo, ma qua e là si vedono delle zone del genere ambientale che Romualdo vedeva ai suoi tempi. Una leggenda locale ci dice che Romualdo piantò rose intorno alla sua cella, le quali fiorivano ancora secoli dopo la sua morte.

 

Per un certo tempo, Romualdo stette recluso in una palude di Comacchio detta Origario. Poco dopo, a causa dell’eccessivo fetore della melma palustre e dell’aria insalubre, ne venne via completamente tumefatto e depilato, tanto che il suo aspetto non era più affatto quello di quando vi si era rinchiuso. La sua carnagione era diventata tutta verdastra, quasi come un ramarro.

 

 

21. Romualdo spegne un incendio con la preghiera.

L’isola del Peréo, ora Sant’Alberto, a quindici chilometri a nord-ovest di Ravenna, sarà il luogo dove Romualdo fonda un eremo di breve durata e dove l’imperatore Ottone III fa costruire un monastero donde inviare missionari in Polonia (cf capitoli 30 e 28). Il Guglielmo compagno di cella di Romualdo è da identificarsi con Guglielmo di Pomposa, il quale, eletto abate di quel monastero, vi aggiunse un eremo, in conformità con la prassi di Cuixá e Montecassino.

 

In un’altra occasione egli abitò nell’isola del Peréo, distante circa dodici miglia da Ravenna. E lì, mentre si intratteneva con un uomo venerabile, cioè un suo discepolo di nome Guglielmo, ad un tratto le fiamme attaccarono le pareti della piccola abitazione e, levatesi in alto, cominciarono a diffondersi con violenza qua e là per il tetto.

Il santo fece subito ricorso al suo solito modo di difendersi. Anziché tirar fuori gli oggetti che erano all’interno, o scoperchiare il tetto, come si fa in questi casi, o gettare acqua in abbondanza, o affannarsi con altri tentativi per spegnere il fuoco, si limitò a pronunciare una preghiera. E immediatamente la potenza divina estinse i turbini crepitanti del fuoco.

 

 

22. Romualdo ospita l’imperatore; riceve il governo dell’abbazia di Classe.

Ottone III scende in Italia per la seconda volta nel 998; durante una breve permanenza a Ravenna provvede alla nomina dell’arcivescovo e dell’abate di Classe. Alla sede episcopale sale uno degli uomini più eruditi del decimo secolo, il grande Gerberto di Aurillac. Gerberto è amico di Guarino abate di Cuixá; sebbene non abbia mai incontrato Romualdo nell’abbazia catalana, certamente lo conosce di fama. Non è impossibile che la proposta di fare Romualdo abate di Classe venga proprio da Gerberto. Gerberto resterà arcivescovo non più di un anno. Il 4 febbraio 999 muore Papa Gregorio V, giovane ventisettenne parente di Ottone, e subito l’imperatore fa incoronare Gerberto con il nome di Silvestro II. Rimasta vacante la sede di Ravenna, cominciano a correre voci su una possibile nomina di Romualdo; tali voci gli daranno un motivo in più per rinunziare al governo di Classe.

Sebbene gli avvenimenti di questo capitolo siano certamente storici, Pier Damiano descrive il conflitto fra Romualdo abate e la sua comunità sulla falsariga di quanto racconta S. Gregorio Magno (Dialoghi 2,3) di S. Benedetto e dei monaci di Vicovaro.

 

Fu allora che il giovane imperatore Ottone III, desiderando riformare l’abbazia di Classe, concesse ai fratelli la facoltà di eleggere liberamente chi volessero. Ed essi, subito e all’unanimità, chiesero Romualdo.

L’imperatore però si rese conto che difficilmente il beato si sarebbe lasciato convocare a corte da un messaggero. Volle pertanto andare personalmente da lui. Giunse alla sua cella verso il calare del sole. Romualdo, trovandosi a ricevere nella sua casetta un ospite tanto ragguardevole, gli offrì il suo letticciolo per il riposo. Il re però non accettò la sua coperta, giudicandola troppo ispida.

Il mattino dopo, il re lo condusse con sé a palazzo e cominciò a supplicarlo insistentemente di accettare l’abbazia. Romualdo era riluttante e si rifiutava risolutamente di dare il suo consenso alla richiesta del re. Allora il re minacciò di farlo scomunicare da tutti i vescovi e gli arcivescovi e dall’intero concilio sinodale. Ed egli, di fronte all’inevitabile, si arrese e accettò, costretto al governo delle anime. Riferiva, però, che tutto ciò per lui non era affatto una novità, ma gli era stato rivelato da Dio già da cinque anni.

E così governava i suoi monaci secondo la stretta disciplina della regola 33 e a nessuno permetteva di allontanarsene impunemente. Si trattasse di un nobile o di un letterato, nessuno osava deviare con azioni illecite verso destra o verso sinistra o allontanarsi dalla rettitudine della diritta via della vita comune. Insomma il santo teneva gli occhi del cuore rivolti al cielo e, pur di obbedire a Dio in ogni cosa, non aveva timore di dispiacere agli uomini.

I fratelli, che egli aveva accettato di governare, si resero conto di tutto ciò quando oramai era tardi. E dapprima si scambiarono accuse per averlo chiesto come superiore. Poi si misero a denigrarlo con molte mormorazioni diffamatorie e a trafiggerlo duramente con degli scandali.

 

 

23. Romualdo rinunzia al governo di Classe; mette pace fra Ottone e gli abitanti di Tivoli.

La Vita dei cinque fratelli ci aiuta a stabilire l’ordine cronologico degli eventi che seguono la rinunzia al governo dell’abbazia:

1. Romualdo «in presenza dell’imperatore getta il pastorale; e ciò per non perder forse se stesso, mentre non poteva guadagnare gli altri» (dicembre 999).

2. Romualdo parte immediatamente per Montecassino (di questo viaggio Pier Damiano ne parla al cap. 26), dove trova l’amico e compagno dei bei tempi presso S. Michele di Cuixá, Giovanni Gradenigo. Nell’autunno dell’anno mille Romualdo si ammala e viene curato da un giovane monaco, discepolo del Gradenigo, di nome Benedetto (cf cap. 28).

3. Nel novembre dello stesso anno Ottone III entra in Roma e si ritira con alcuni membri della sua corte nel monastero dei SS. Alessio e Bonifacio sull’Aventino, una comunità che unisce un gruppo di monaci greci con dei benedettini cluniacensi. Qui Bruno di Querfurt si era da poco fatto monaco, prendendo il nome di Bonifacio, in onore del grande monaco missionario inglese Bonifacio (675-754) «apostolo della Germania».

4. Subito dopo, arriva a Roma S. Romualdo; incontra l’imperatore sull’Aventino, prende con sé Bruno Bonifacio e Tammo (anche lui divenuto monaco come penitenza per il fatto di cui al cap. 25) e si stabilisce fuori città in un eremo provvisorio (forse nelle vicinanze dell’abbazia di Subiaco). L’assedio di Tivoli avviene in questo periodo, fra il dicembre del 1000 e il gennaio del 1001.

5. Il 16 febbraio 1001 Roma insorge contro Ottone; l’imperatore con le truppe tedesche e il «suo» Papa Silvestro II fuggono a Ravenna; Romualdo e i suoi discepoli si ritirano al Peréo.

 

Quando si accorse che così la sua perfezione andava diminuendo, mentre i loro costumi scivolavano verso il peggio, Romualdo si presentò senza indugi al re e, nonostante le obiezioni di costui e dell’arcivescovo di Ravenna, sotto gli occhi di entrambi gettò a terra il pastorale e si dimise dal monastero.

Il re si trovava allora ad assediare la città di Tivoli. I cittadini avevano infatti ucciso il suo illustre duca Mazzolino e, ricorsi alle armi, avevano cacciato lo stesso re dalle loro mura. Pertanto, è indubbio che era stata la divina provvidenza a mandare lì Romualdo, il quale mediò la pace e allontanò così il pericolo che incombeva su tante anime. Fu pattuito che i Tiburtini, come segno di rispetto verso il re, avrebbero demolito una parte delle mura, avrebbero dato degli ostaggi e avrebbero consegnato in catene alla madre l’uccisore del duca. Costei poi si lasciò impietosire dalle preghiere che il santo rivolse a Dio, perdonò il delitto all’uccisore, che già aveva cominciato a far tormentare, e lo lasciò tornare incolume a casa.

 

 

24. Romualdo corregge l’eremita Venerio.

Romualdo ripete all’eremita Venerio le parole che lui stesso ha sentito nella visione di S. Apollinare mentre era «non lontano dal Catria » (cap. 19), cioè che deve «recarsi al suo monastero». L’eremitismo romualdino si colloca all’interno del sistema benedettino, non come alternativa alla vita cenobitica ma come suo arricchimento e completamento. Per questo Romualdo viene chiamato (da Bruno Bonifacio di Querfurt) «il padre degli eremiti ragionevoli», in quanto i suoi discepoli «vivono sotto la Regola», quella di S. Benedetto (cf: Vita dei cinque fratelli, cap. 2).

Si può confrontare questo episodio della vita di Romualdo con quello raccontato da S. Gregorio Magno ( Dialoghi 3,16). Dice S. Benedetto a un eremita che si era legato alla sua caverna con una catena: «Se sei servo di Dio, a tenerti legato non sia una catena di ferro, ma la catena di Cristo».

 

Presso Tivoli Romualdo produsse anche un altro frutto di bene, che ritengo di non dover passare sotto silenzio. Un sant’uomo di nome Venerio aveva abitato in un primo tempo entro un monastero. La sua umiltà e la sua semplicità erano così grandi che tutti i fratelli lo deridevano con disprezzo e pensavano che fosse un pazzo privo di ragione. Chi lo prendeva spesso a pugni, chi gli tirava addosso l’acqua sporca della lavatura delle pentole, chi lo esasperava gridandogli rimproveri di ogni specie.

Considerando che non poteva conservare la sua tranquillità in mezzo a tutti quei disagi, lasciò quella compagnia e se ne fuggì in un luogo solitario. Qui viveva da sei anni, astenendosi dal vino e da qualsiasi pietanza cotta, in un regime di estrema austerità.

Romualdo gli chiese: «Sotto quale autorità ti sei posto? A chi presti obbedienza nel tuo stato di vita?». Egli rispose che era libero da ogni autorità, e che faceva quello che gli sembrava meglio. Romualdo gli disse: «Se tu stai portando la croce di Cristo, ti rimane ancora da non tralasciare l’obbedienza di Cristo. Va’, dunque, fatti dare il consenso dal tuo abate. Poi ritorna e vivi umilmente sottomesso a lui. Così l’edificio dell’opera santa, costruito dalla buona volontà, verrà eretto dall’umiltà e innalzato dalla virtù dell’obbedienza». Gli rivolse questo e molti altri ammaestramenti, gli insegnò come resistere ai propri pensieri, come respingere gli assalti degli spiriti iniqui. Così lo lasciò fortificato, istruito e pieno di zelo.

Allora, accogliendo con gioia gli ammaestramenti del santo, quell’uomo andò subito dal suo abate, ne ottenne il consenso e ritornò al più presto alla sua diletta solitudine. Volendo però abitare in un possedimento del suo monastero, se ne salì su una rupe inaccessibile agli uomini e lontana dalla loro compagnia. Qui, per quattro anni, visse solo, privo di qualsiasi conforto umano, salvo tre panini che aveva portato con sé dal monastero. Non mangiava pane, non beveva vino, non assaggiava nulla di cotto. Viveva esclusivamente di frutta e di radici. Nella rupe c’era una cavità in cui d’inverno si raccoglieva l’acqua di cui il santo si serviva per tutta l’estate.

Quando però si venne a sapere che in quel luogo abitava un servo di Dio, cominciarono ad affluire a lui molte persone, a portargli del cibo e a fornirgli tutto ciò che sembrava necessario. Lui però non aveva bisogno di nulla di tutto ciò e dava tutto ai pastori di pecore o ad altri bisognosi.

Esortato dal vescovo del luogo, acconsentì a far costruire e consacrare in quel luogo una basilica. E all’interno di questa, poco tempo dopo, egli morì. Alcune persone che lo cercavano lo trovarono chinato davanti all’altare, quasi si fosse piegato in preghiera sui gomiti e sulle ginocchia.

Qui il Signore si degnò di compiere alcuni miracoli per mezzo di lui. Così, dunque, rese frutti copiosi la buona terra, che aveva accolto dalla bocca di Romualdo il seme della Parola per poi moltiplicarlo.

 

 

25. Tammo si fa monaco; anche l’imperatore promette di prendere l’abito.

Gli eventi raccontati in questo capitolo sono ben documentati; accadono nell’anno 998, prima che Romualdo venga a Roma e prima degli eventi raccontati negli ultimi due capitoli.

Il racconto di Pier Damiano ve completato, in quanto è di parte e non del tutto giusto nei giudizi che emette su Ottone III e sul suo cugino, il giovane (ventisettenne) prete tedesco che l’imperatore fece eleggere papa col nome di Gregorio V. Una certa giustificazione di questa “ingerenza” si trova nella decadenza del papato del epoca.

Verso la fine dell’anno 997, il senatore Crescenzio caccia da Roma Gregorio V. Nel febbraio del 998 l’imperatore, in testa alle truppe imperiali, ricondusse Gregorio nel palazzo papale. Crescenzio si rifugia in Castel S. Angelo. Indotto con inganno a uscirne volontariamente, Crescenzio viene preso e decapitato alla fine di aprile.

 

Nelle vicinanze della predetta città, Romualdo convertì Tammo, un tedesco che, a quanto si dice, era così familiare e caro al re che l’uno stava nei panni dell’altro e, mangiando spesso insieme, le loro mani si univano su un unico piatto. Il senatore romano Crescenzio, incorso nell’indignazione del re, si era rifugiato in Monte S. Angelo e, poiché questa è una fortezza inespugnabile, si preparò con fiducia a respingere l’assalto del re.

 Tammo, allora, gli prestò giuramento di fedeltà per ordine del re e così egli venne catturato e, con il consenso del papa che gli era nemico, subì la pena capitale come reo di lesa maestà. La sua moglie fu presa poi dall’imperatore come concubina. Essendosi Tammo reso complice dell’inganno e colpevole di spergiuro, Romualdo gli comandò di lasciare il mondo. E lui ne chiese subito licenza al re, che gliela concesse facilmente, anzi ne fu molto contento.

 Ottone era assai benevolo verso l’ordine monastico e nutriva devoto affetto verso i servi di Dio. E quando egli ebbe confessato quel crimine, per penitenza uscì a piedi nudi dalla città di Roma e arrivò fino al monte Gargano, alla chiesa di S. Michele.

 Inoltre rimase per tutta la quaresima nel monastero di S. Apollinare in Classe, con pochi accompagnatori. Qui si dedicava come poteva al digiuno e alla salmodia. Portava sulla carne un cilicio e, sopra, indossava la porpora dorata. E, sebbene gli venisse preparato un letto con coperte splendenti, egli mortificava le tenere membra del suo corpo delicato sdraiandosi sopra una fitta stuoia di papiro. Promise anche a Romualdo di lasciare l’impero e accettare l’abito monastico. Lui, a cui erano sottoposti innumerevoli mortali, si assoggettò così al Cristo povero e, da allora, gli fu debitore di se stesso.

 

 

26. Romualdo s’ammala a Montecassino, poi torna al Peréo.

Ricordiamo che gli episodi ambientati a Roma e a Tivoli avvengono dopo la permanenza di Romualdo a Montecassino e immediatamente prima del rientro al Peréo con Bruno Bonifacio e gli altri. Nei capitoli che seguono (27-31) Pier Damiano abbandona del tutto l’ordine cronologico; lo precisiamo seguendo sempre la traccia della Vita dei cinque fratelli e di altri documenti contemporanei agli eventi.

<'inormal'>, cap. 2). Pier Damiano, invece, reputa la preoccupazione di Romualdo style='mso-bidi-font-style:normal'>  1. L‘imperatore Ottone III fa costruire al Peréo un monastero cenobitico in onore di S. Adalberto, arcivescovo di Praga e monaco del monastero sull’Aventino, che subì il martirio in Polonia il 23 aprile 997 e fu sepolto a Gniezno. Romualdo dà il suo consenso al progetto, attirando su di sé molte critiche (vedi cap. 30). Siamo nell’autunno del 1001.

 2. Ottone propone a Romualdo di mandare alcuni suoi discepoli in Polonia. Con il permesso di Romualdo, Benedetto da Benevento e Giovanni partono ai primi di Novembre 1001 (vedi cap. 28).

 3. Poco prima della loro partenza, infastidito dalla continua presenza nell’eremo dei cortigiani di Ottone, Bruno Bonifacio si trasferisce in un altro posto, e anche Romualdo se ne va, salpando per Parenzo (Croazia), dove conta parenti e terre di proprietà della famiglia.

4. A Natale dello stesso anno, in un sinodo tenuto a Todi e presieduto da Silvestro II, si decide di consacrare Bruno Bonifacio vescovo per la missione nei paesi slavi. Nel gennaio 1002 Ottone III parte all’assedio di Roma, è sconfitto e rifugiatosi nel castello di Paterno vicino al Monte Soratte muore di vaiolo all’età di 23 anni (vedi cap. 30); Silvestro II muore l’anno seguente.

 5. La notizia della morte dell’imperatore arriva alle orecchie di Giovanni e Benedetto in Polonia, dove con alcuni novizi polacchi attendono ansiosi il condiscepolo Bruno Bonifacio con la licenza papale per la loro missione tra i pagani. Attaccati da una banda di ladri muoiono santamente giovedì 11 novembre 1003 (cap. 28).

 6. Nel 1005 Romualdo lascia Parenzo e torna in Italia, dove inizia la fase più prolifica della sua attività di fondatore: lo troviamo a Biforco in Romagna (cap. 34), nella Marca camerinese (Val di Castro, cap. 35), a Orvieto (cap. 37) e altrove.

 7. Il 9 marzo 1009 Bruno Bonifacio cade martire per mano dei Prussi nell’attuale Lituania (cap. 27); Romualdo è a Orvieto.

 

Poi, insieme a Tammo, già ricordato, a Bonifacio, che ora la chiesa russa vanta come suo santo martire, e ad altri tedeschi convertiti, Romualdo giunse da Tivoli al monastero di S. Benedetto che si trova a Montecassino. Lì si ammalò assai gravemente, ma ben presto, per la divina misericordia, guarì.

Possedeva un ottimo cavallo, che gli era stato donato dal figlio del re polacco Boleslao, divenuto monaco per opera sua. Il santo, per umiltà, lo scambiò e, tanto per avere un buon guadagno, da bravo affarista si fece dare un asinello! Per il desiderio di fare come il nostro Redentore, che si era seduto su un’asinella, l’uomo di Dio cavalcava più volentieri questo animale.

Con tutte le persone sopra menzionate, Romualdo ritornò poi al Peréo, dove già aveva abitato in precedenza. Qui si associò quelli e molti altri fratelli e assegnò a ciascuno una cella. Sia lui che gli altri erano tanto ferventi nell’osservare con rigore la vita eremitica, che dovunque arrivasse notizia della loro vita, questa veniva giudicata ammirabile. E chi non si stupirebbe o non avrebbe acclamato a un mutamento dovuto alla destra di Dio, se vedesse dapprima degli uomini vestiti di seta o addirittura d’oro, circondati di stuoli di servitori e abituati a delizie di ogni genere in abbondanza e li rivedesse poi contenti di un rozzo mantello, solitari, scalzi, incolti e rinsecchiti da un’astinenza così rigida? Tutti si impegnavano in lavori manuali: chi faceva cucchiai, chi tesseva, chi intrecciava reti.

 

 

27. Bruno Bonifacio rende testimonianza a Cristo in mezzo ai Prussi.

Questo capitolo, il più lungo della VR, contiene l’errore storiografico più serio dell’opera: S. Pier Damiano chiama «re dei Russi» il principe pagano dei Prussi, fra cui Bruno Bonifacio trovò il suo martirio. Dopo il millenario del battesimo di Vladimiro, il santo principe della Rus’ di Kiev (celebrato nel 1988), è importante precisare il rapporto che il nostro Bruno Bonifacio ebbe con lui.

In una lettera indirizzata a Enrico II successore di Ottone III, Bruno Bonifacio parla dell’ospitalità del «signore dei Russi» che preoccupato per l’incolumità dell’ospite, lo scongiurava di non avventurarsi fra le tribù pagane. Al loro addio Vladimiro gli disse: «Ti ho condotto fin dove finisce il mio territorio e incomincia quello dei nemici. Ti scongiuro per amore di Dio, non voler perdere la tua giovane vita: sarebbe un disonore per me. So che in un futuro molto prossimo dovrai soffrire acerba morte, inutilmente e senza motivo». Rispose Bruno Bonifacio: «Ti apra Iddio il paradiso, come tu ci apristi la via verso i pagani».

L’amicizia fra i due santi della Chiesa indivisa è un segno per i nostri tempi: mille anni fa, alla vigilia della scomunica della Chiesa di Costantinopoli da parte di Roma e viceversa (le scomuniche furono cancellate nel 1966 alla fine del Concilio Vaticano II), i santi delle due Chiese sorelle - S. Bruno Bonifacio inviato da Roma, S. Vladimiro erede spirituale di Bisanzio - vivevano in perfetta comunione e collaboravano per la diffusione del Vangelo nel pieno rispetto delle diverse tradizioni e discipline ecclesiastiche.

Bruno Bonifacio muore il 9 marzo 1009. S. Romualdo è a Orvieto, e quando riceve la notizia parte per Roma e va dal Papa Sergio IV per chiedere l’autorizzazione di andare missionario in Ungheria (vedi cap. 39).

 

La vita condotta da [Bruno] Bonifacio superava di molto quella di tutti gli altri. Egli era stato consanguineo del re e questi lo aveva così caro che non lo chiamava con altro nome se non «anima mia». Ben presto era stato istruito nelle arti liberali, ma soprattutto eccelleva negli studi musicali. Quando faceva parte della cappella reale, vedendo una chiesa intitolata all’antico martire Bonifacio, si era subito sentito sollecitato dal desiderio del martirio a imitazione del suo omonimo e aveva detto: «Mi chiamo Bonifacio anch’io. Perché dunque non dovrei anch’io essere un martire del Cristo?».

In seguito, divenuto monaco, si attenne a un’astinenza così frugale che sovente nella settimana prendeva da mangiare soltanto la domenica e il giovedì. Qualche volta, se scorgeva fitti cespugli di ortiche o addirittura di spini, vi si gettava e vi si rotolava. Per questo, una volta un fratello lo riprese, dicendogli: «Ipocrita, perché fai questo davanti a tutti per attirarti l’ammirazione della gente?». E lui non gli rispose che questo: «A te i confessori, a me i martiri».

Dopo un prolungato periodo di vita eremitica, iniziò i preparativi per recarsi a predicare. Volle prima raggiungere Roma e ivi ricevette, dalla sede apostolica, la consacrazione archiepiscopale. Un monaco anziano, che lo aveva accompagnato lì dal territorio di Ravenna, mi riferiva che per tutto il viaggio quell’uomo di Dio procedette a piedi insieme ai suoi accompagnatori, salmodiando in continuazione, precedendo gli altri di un buon tratto di strada, e sempre a piedi nudi. In ragione delle fatiche del viaggio, prendeva cibo ogni giorno, mezzo pane e acqua al giorno, mentre nelle feste, pur escludendo qualsiasi minestra, aggiungeva al vitto quotidiano un po’ di frutta o di radici.

Dopo essere stato consacrato, celebrava le ore recitando ogni giorno sia l’ufficiatura monastica sia quella canonica. Durante il viaggio per i territori oltramontani, andò a cavallo. Ma, si dice, il pontefice stava sempre a gambe e a piedi nudi e soffrì il rigore insopportabile di quelle gelide regioni fino al punto che, quando voleva smontare da cavallo, difficilmente poteva staccare il piede dalla staffa senza ricorrere all’acqua calda.

Una volta arrivato presso i pagani, incominciò a predicare con un fervore così costante da non lasciare dubbi che il santo desiderasse il martirio. E, poiché dopo il martirio di S. Adalberto si erano convertiti molti slavi per lo splendore dei suoi miracoli, per paura che si ripetesse una simile eventualità, per lungo tempo quelli si astennero, con calcolata malizia, dall’aggredire il beato uomo. Così non volendo ucciderlo, risparmiarono crudelmente chi aveva un desiderio vivissimo di morire.

L’uomo di Dio giunse fino alla presenza del re dei Russi [Prussi] e vi predicò con fermezza e ardore. Il re, vedendolo vestito miseramente e a piedi nudi, pensò che il santo parlasse così non tanto per motivi di religione, quanto per far incetta di denaro. Gli promise perciò di colmare la sua povertà con ricchissime elargizioni, se si fosse astenuto dai suoi vaneggiamenti. Bonifacio tornò subito alla sua abitazione, si rivestì convenientemente dei suoi abiti pontificali più preziosi e si ripresentò così al palazzo del re. E il re, al vederlo in quelle splendide vesti, disse: «Ora sappiamo che ti dedichi ai tuoi vani ammaestramenti non per miseria, ma per ignoranza della verità. Tuttavia, se proprio vuoi farci credere quello che affermi, si preparino due alte cataste di legna, molto vicine l’una all’altra, si appicchi il fuoco, e, quando l’incendio avrà unito i due mucchi in una sola fiamma, tu passaci in mezzo. Se riporterai delle bruciature da qualche parte, noi ti faremo consumare da quello stesso fuoco. Se invece accadrà l’incredibile e tu ne uscirai sano, tutti quanti crederanno senza difficoltà al tuo dio». Il patto piacque sia a Bonifacio che ai pagani presenti. Bonifacio, dunque, indossò i paramenti della Messa, girò attorno al fuoco con acqua santa e con incenso, poi entrò in mezzo alle fiamme crepitanti e ne uscì illeso. Nemmeno il più piccolo dei suoi capelli era rimasto bruciato. Allora, il re e gli altri spettatori si gettarono insieme ai suoi piedi, gli chiesero perdono piangendo e lo supplicarono insistentemente di battezzarli.

Le folle che cominciarono ad affluire per farsi battezzare erano così numerose che il santo dovette recarsi presso un vasto lago e battezzarli là, dove c’era acqua in abbondanza. Il re decise di lasciare il regno al proprio figlio e di non separarsi da Bonifacio per il resto della vita. Un suo fratello, che abitava con lui, fu fatto uccidere dal re, durante un’assenza di Bonifacio, per non aver voluto credere. Un altro fratello, che già viveva in un’abitazione separata da quella del re, fin da quando aveva visto arrivare da lui l’uomo di Dio, non l’aveva mai voluto ascoltare. Anzi, quando il fratello si convertì, subito bruciò di grande ira contro di lui. E per evitare che, mantenendolo in vita, il re lo sottraesse alla sua vendetta, lo fece decapitare davanti ai suoi propri occhi e alla presenza di una numerosa folla. Immediatamente, però, egli rimase cieco e lo stupore che invase gli astanti fu tale che nessuno di loro poteva più parlare o sentire o compiere una qualsiasi attività umana. Tutti erano rimasti rigidi e immobili come pietre.

Il re, quando ne ebbe notizia, fu colpito da grande dolore e deliberò non solo di far uccidere suo fratello, ma di far trucidare con la spada tutti gli altri fautori del delitto. Si recò subito sul posto e vide, in mezzo, il corpo del martire e, tutto intorno, il fratello e gli altri starsene insensibili e immobili. Allora, lui e i suoi uomini convennero di dover prima pregare per quegli uomini, perché la divina misericordia restituisse loro l’uso dei sensi, e dopo, se avessero accettato di credere, avrebbero avuto il perdono e la vita, altrimenti sarebbero morti tutti di spada vendicatrice.

Quando il re e gli altri cristiani ebbero pregato a lungo, non soltanto tutti riebbero l’uso dei sensi, ma, in più sopraggiunse in loro la decisione di chiedere la vera salvezza. Infatti, si misero subito a chiedere piangendo una punizione per il delitto commesso, ricevettero il sacramento del battesimo con grande prontezza d’animo e, sul corpo del martire, costruirono una chiesa.

 Se dovessi provarmi a riferire tutti i doni di virtù che di quest’uomo ammirabile si possono raccontare secondo verità, potrebbe forse venirmi a mancare la lingua, non certo la materia. Poiché però la vita virtuosa di Bonifacio tuttora attende di essere messa per iscritto separatamente, noi qui vogliamo ricordarlo al di sopra e insieme agli altri discepoli di Romualdo, per mostrare, lodando costoro, quanto fosse grande il loro glorioso maestro. E così, fino a quando risuonerà alle orecchie dei fedeli la sublimità della sua cerchia, si potrà conoscere dai suoi scolari quanto sublime dovette essere il loro istruttore.

 

 

28. Giovanni, Benedetto e i loro compagni polacchi muoiono perdonando gli assassini.

Nella Vita dei cinque fratelli Bruno Bonifacio racconta la storia dei due discepoli romualdini che con tre novizi polacchi versarono il loro sangue innocente perdonando gli uccisori. Il libro è un inno all’amicizia ed è pieno di calore umano e di grande zelo per il Vangelo di Cristo. Bruno Bonifacio sottolinea l’attenzione che Giovanni e Benedetto prestavano alla cultura e ai costumi della gente fra cui avrebbero svolto la loro missione. I due monaci deposero l’abito tradizionale per vestirsi secondo l’uso locale; si sono sforzati di imparare bene la lingua del popolo; e non è inverosimile che anche nelle celebrazioni liturgiche usassero la versione slava della Messa romana fatta dai Santi Cirillo e Metodio, la cosiddetta «Liturgia di S. Pietro» o «Messa glagolitica».

 Un’altra inesattezza di Pier Damiano: Giovanni e Benedetto furono in Polonia appena due anni, non sei. Morirono nelle prime ore di giovedì 11 novembre 1003.

 

Frattanto, nel tempo in cui Romualdo abitava al Peréo, il re Boleslao fece pervenire all’imperatore una supplica per chiedergli di mandargli uomini spirituali che chiamassero alla fede la popolazione del suo regno. L’imperatore si rivolse subito a Romualdo e lo supplicò di mettere a disposizione alcuni suoi monaci, in grado di essere destinati con frutto a quella missione. Questi non volle però farne a nessuno dei suoi un obbligo con autorità di superiore. Lasciò a ciascuno la facoltà di scegliere se restare o partire. Su una materia così densa di rischio egli non sapeva quale fosse la volontà di Dio e pertanto volle rimetterla alla decisione dei fratelli, piuttosto che alla propria. Allora il re prese a consultarli e a pregarli umilmente, finché, alla fine, fra tutti se ne trovarono soltanto due che offrirono spontaneamente la propria disponibilità a partire. Si chiamavano Giovanni e Benedetto.

I due, una volta arrivati presso Boleslao, dapprima sostentati da costui, abitarono in un eremo e si applicarono con impegno ad apprendere la lingua slava per poter poi predicare. Sei anni dopo, quando ormai possedevano bene la lingua, mandarono a Roma un monaco a chiedere al Sommo Pontefice la licenza di predicare. Lo incaricarono anche di portare, al ritorno, altri fratelli del beato Romualdo, bene avviati nella vita eremitica, che avrebbero abitato insieme a loro nel territorio polacco.

 Boleslao desiderava ottenere dall’autorità romana la corona del regno. Per questo pregò con insistenti suppliche i predetti uomini venerabili di recare personalmente al papa molti suoi doni e di riportargli la corona dalla sede apostolica. Ma essi ricusarono assolutamente di acconsentire alla richiesta del re. Gli dissero: «Noi siamo costituiti nell’ordine sacro; non ci è permesso in alcun modo occuparci di affari secolari». E così lasciarono il re e fecero ritorno alle loro celle.

 Alcune persone erano al corrente del progetto del re ma non avevano saputo della risposta dei santi. Immaginarono così, che questi avessero portato nelle loro celle una copiosa quantità d’oro da portare al papa. Si riunirono e pattuirono di entrare nottetempo nell’eremo di nascosto, di uccidere i monaci e prendersi il denaro.

 Gli uomini beati, quando si accorsero che quelli tentavano di fare irruzione, si resero subito conto dei motivi di quell’arrivo. Si confessarono tra loro e incominciarono a cercare rifugio nel segno della santa croce. Presso di loro c’erano due servitori, messi a loro disposizione dalla corte. Per quanto glielo permisero le loro forze, essi tentarono di difendere i santi e di opporsi ai ladri. Ma i ladri, una volta riusciti ad entrare, estrassero le spade e uccisero tutti quanti. Poi cercarono affannosamente il tesoro, misero tutto a soqquadro, ma non trovarono niente.

 Allora, volendo nascondere il loro grave delitto, e far credere che l’accaduto fosse dovuto a un incendio anziché alle loro armi, cercarono di dar fuoco alla cella e così bruciare i cadaveri dei martiri. Ma il fuoco perse le sue prerogative naturali. Quando veniva accostato, nonostante gli sforzi di quegli uomini, non poteva assolutamente appiccarsi ad alcunché. La materia stessa delle pareti lo respingeva, come se fosse selce durissima anziché legno.

 Così delusi, i ladri tentarono di darsi alla fuga, ma la provvidenza divina negò loro anche questo. E per quanto si affannassero per tutta la notte a cercare la strada del bosco attraverso cespugli, larghe gole e buie boscaglie, i loro passi erravano qua e là e non riuscirono in nessun modo a trovarla. Non poterono nemmeno riporre nei foderi i loro pugnali: le loro braccia si erano come paralizzate.

 Sul luogo in cui giacevano i corpi dei santi, fino al mattino non cessò di brillare una luce intensa e di risuonare un canto d’angeli dolcissimo e soave.

Quando fu giorno, l’accaduto non poté sfuggire al re. Questi si recò subito all’eremo con molta gente e, per non lasciare scampo ai ladri, circondò di uomini ogni lato del bosco. Infine essi furono trovati e riconosciuti palesemente colpevoli del delitto, dato che le loro mani, per punizione divina, erano attaccate alle spade.

 Il re, esaminando il caso, rifletté sulla sorte da riservare loro e, infine, decise di non farli uccidere, come avrebbero meritato, ma di destinarli, incatenati, al sepolcro dei martiri. Sarebbero così vissuti miseramente in catene fino alla morte, a meno che i santi martiri, decidendo diversamente, non avessero voluto liberarli per misericordia. Non appena, per ordine del re, essi furono trascinati alla tomba dei santi, subito, per l’onnipotenza ineffabile di Dio, i legami si spezzarono, lasciandoli liberi. Sul corpo dei santi venne poi costruita una basilica, dove si verificarono allora e si verificano tuttora innumerevoli prodigi, per virtù divina.

 

 

29. Un monaco polacco, messo in prigione da Enrico II, viene liberato da un angelo.

Per quanto riguarda il duca Boleslao Chrobry, né la Vita dei cinque fratelli né altre fonti parlano di un tentativo da parte di Boleslao di «comprare» dal papa la corona del re. La Santa Sede non ha alcuna possibilità di prestare aiuto ai polacchi contro l’imperatore sassone Enrico, e per più di venti anni dovranno lottare da soli per conservare la loro indipendenza dall’egomonia tedesca. Pier Damiano si presume che abbia ricevuto questa notizia da persone vicine alla corte di Enrico II, il quale era notoriamente ostile a Boleslao e ai polacchi (vedi cap. 65). Siamo nel 1004; alla fine del 1005 si stipula una pace di breve durata fra Enrico e Boleslao, e Bruno Bonifacio inizia la sua missione in Polonia.

 

L’imperatore Enrico non ignorava i progetti di Boleslao e aveva fatto sorvegliare le varie strade per poter subito catturare eventuali inviati di Boleslao a Roma. Pertanto, il monaco mandato poco tempo prima dai santi martiri, venne preso e immediatamente tradotto in carcere. Ma durante la notte, venne un angelo del Signore a visitarlo in carcere, lo informò della sorte subita dai suoi mandanti e, subito dopo, apertosi per potenza divina il carcere, gli fece sapere che c’era un’imbarcazione pronta per lui presso il fiume che egli avrebbe dovuto attraversare. Il monaco vi si recò in fretta e poté verificare che la promessa dell’angelo corrispondeva al vero.

 

 

30. Ottone III fa costruire il monastero del Peréo.

Questo capitolo ci porta indietro e cioè all’autunno del 1001 (vedi la nota cronologica al cap. 26). Con la costruzione del monastero di S. Adalberto accanto all’eremo del Peréo si tenta di realizzare un progetto monastico completo in cui, all’interno della stessa vocazione monacale, si esprime una grazia multiforme dello Spirito. Sebbene S. Bruno Bonifacio ci informi che l’idea di aggiungere il monastero e la missione all’eremo era partita non da Romualdo ma da Ottone, lo schema pluralistico del progetto corrispondeva perfettamente alla visione monastica di Romualdo. (cf. Vita dei cinque fratelli , cap. 4).

 

Sempre nel periodo in cui Romualdo risiedeva al Peréo, per suo suggerimento, l’imperatore Ottone vi costruì un monastero in onore di Sant’Adalberto. Gli assegnò alcuni fondi contigui appartenenti al cenobio di Classe, che in cambio ne ricevette altri dal fisco regio nel territorio di Fermo. Nominato abate un discepolo di Romualdo e radunatisi là dei fratelli, Romualdo esercitava su di loro grande sorveglianza e insegnava loro a vivere secondo la disciplina della regola. E all’abate prescrisse di ritirarsi nell’eremo e di vivere nella sua cella durante la settimana, mentre la domenica si sarebbe recato al monastero a visitare i fratelli.

Costui, però, disprezzando il comando del santo, si mise a vivere alla maniera dei secolari e, una volta uscito di carreggiata, prese ad allontanarsi sempre di più dal sentiero della rettitudine. Romualdo, allora, rendendosi conto che là non gli sarebbe stato possibile lavorare secondo l’ardore della sua volontà, si presentò subito al re. Reclamando quanto gli aveva promesso, insistette vivacemente che il re si facesse monaco. Costui assicurò che avrebbe compiuto ciò che gli veniva richiesto; prima, doveva portarsi a Roma, dove era in corso una ribellione, e, dopo aver riportato vittoria, avrebbe fatto ritorno a Ravenna. Romualdo gli disse: «Se andrai a Roma, tu non vedrai mai più Ravenna». Gli preannunziava così, senza reticenze l’imminenza della sua morte. Non riuscì, però, a trattenerlo e allora, senza nutrire nessun dubbio sulla fine che avrebbe fatto, durante il viaggio del re alla volta di Roma, Romualdo salì su una nave e raggiunse per mare la città di Parenzo.

Conforme alla profezia, il re, non appena ebbe intrapreso il ritorno da Roma, si ammalò improvvisamente e morì vicino a Paterno.

 

 

31. Romualdo riceve la perfetta compunzione del cuore e l’intelligenza delle scritture.

Parenzo è l’attuale Porec in Croazia. Siamo nel 1001.

 Attraverso la salmodia Romualdo raggiunge la perfetta compunzione del cuore e l’intelligenza delle Sacre Scritture. Con questo capitolo - forse il più bello e quello teologicamente più significativo di tutto il libro - si confronti la «Piccola Regola di S. Romualdo» nella Vita dei cinque fratelli, cap. 19.

 

Romualdo abitò nel territorio di Parenzo per tre anni, uno dei quali dedicato alla costruzione di un monastero e due alla vita di recluso. Fu appunto qui che la grazia divina lo innalzò al culmine della perfezione, tanto che, sotto l’ispirazione dello Spirito Santo, poté prevedere alcuni eventi futuri e penetrare con intelligenza molti misteri nascosti del vecchio e del nuovo Testamento.

 Mentre stava a Parenzo a volte era angosciato dal desiderio di erompere in lacrime, tuttavia, per quanto si sforzasse, non era capace di pervenire alla compunzione di un cuore contrito. Un giorno, mentre stava in cella a salmodiare, si imbatté in questo versetto: «Ti farò saggio, t’indicherò la via da seguire; con gli occhi su di te, ti darò consiglio» (Sal 31, 8).

 Gli sopraggiunse improvvisamente una così larga effusione di lacrime, e la sua mente fu talmente illuminata nella comprensione delle scritture divine, che da quel giorno in poi, finché visse, ogni volta che lo voleva, poteva versare con facilità lacrime abbondanti e il senso spirituale delle scritture non gli era più nascosto.

 Sovente, rimaneva così rapito nella contemplazione di Dio che si scioglieva quasi interamente in lacrime e bruciando di fervore indicibile per l’amore divino, usciva in esclamazioni come queste: «Caro Gesù, caro! Mio dolce miele, desiderio inesprimibile, dolcezza dei santi, soavità degli angeli!» Parole che, sotto il dettato dello Spirito Santo, gli si tramutavano in canti di giubilo e che noi non sapremmo rendere compiutamente mediante concetti umani. Era come dice l’Apostolo: «Noi non sappiamo neppure come dobbiamo pregare, ma lo Spirito stesso intercede per noi con gemiti inesprimibili» (Rm 8, 26).

 E se Romualdo non voleva celebrare la Messa alla presenza di molte persone, era a motivo delle sue troppe lacrime, che egli non riusciva a trattenere. Per lo stesso motivo, in seguito, quando ormai questo fatto gli era diventato abituale, credendo, nella sua semplicità di animo, che Dio concedesse a tutti quella stessa grazia, ripeteva spesso ai discepoli: «State attenti a non effondere troppe lacrime, perché sciupano la vista e danneggiano il cervello».

 Il santo, poi, dovunque si disponesse ad abitare, prima di tutto costruiva nella cella una cappella con altare, quindi vi si rinchiudeva vietando l’accesso.

 

 

32. Romualdo prevede l’arrivo di fratelli da lontano.

Sempre a Parenzo, Romualdo conosce in spirito l’arrivo di monaci dell’eremo di Biforco in Romagna. Ora il luogo si chiama S. Benedetto in Alpe; è vicino alla confluenza dell’Acquacheta con il Rio Destro, che unendosi formano il fiume Montone che bagna Forlì.

 

I fratelli che abitavano nel luogo solitario chiamato Biforco una volta gli mandarono a chiedere consiglio su come impostare la vita dell’eremo e come poter resistere agli assalti diabolici. Quando gli inviati giunsero al monastero, sebbene la cella di Romualdo fosse a una buona distanza, immediatamente l’uomo di Dio conobbe in spirito il loro arrivo e dette all’abate Ausone, che si trovava presso di lui, questo comando: «Va’ a preparare una pietanza per i fratelli che sono arrivati da lontano».

 Quello si mise subito a prenderlo in giro, a dirgli che era senz’altro un falso profeta. Alla fine, però, più o meno costretto, venne al monastero e, nella chiesa, trovò raccolti in preghiera gli uomini di cui aveva parlato il santo. E Romualdo somministrò loro in abbondanza il sale della dottrina della salvezza e li armò di molte virtù contro gli agguati del nemico antico. Dopo averli ammaestrati accuratamente su ogni cosa, li rimandò al loro eremo pieni di entusiasmo.

 

 

33. Navigando verso l’Italia, Romualdo allontana una tempesta con la preghiera.

Dietro invito degli eremiti di Biforco, Romualdo lascia Parenzo circa l’anno 1005. Con lui è il monaco Ingelberto, di cui ai capitoli 41, 56, 57.

 

I fratelli ora menzionati gli mandarono dei messaggeri una seconda volta per consultarlo con accresciuta ansietà sui medesimi argomenti. L’uomo di Dio disse loro: «Io sto appunto scrivendo un libretto sul combattimento contro i demoni. Quando tornerete indietro ve lo consegnerò. Anzi, forse verrò con voi anche io».

Sentendo queste parole, quelli gli si prostrarono davanti e lo supplicarono fino all’importunità di degnarsi di andare con loro. Il giorno dopo, egli assicurò che sarebbe senz’altro partito con loro e diede ordine di cercare una nave.

A questa notizia, il vescovo di Parenzo rimase addoloratissimo. Essendosi incontrato con i monaci mentre questi si stavano interessando dell’imbarcazione, li coprì di ingiurie e di rimproveri. E, in più, promulgò un editto all’indirizzo di tutti gli abitanti del porto con cui vietava il rientro in Parenzo a chiunque avesse osato fornire una nave a Romualdo, emigrando così, insieme a lui, per un viaggio senza ritorno.

Allora, fu mandato sollecitamente un messaggero al vescovo di Pola perché non indugiasse a inviare al beato un’imbarcazione. Questo vescovo, infatti lo aveva esortato spesso a non restare definitivamente recluso in quell’oscuro recesso e a portarsi invece a Pola. Qui avrebbe avuto la possibilità di guadagnare un maggior numero di anime. Anziché ardere soltanto per se stesso come un carbone, avrebbe invece potuto diffondere i suoi raggi su tutti coloro che stanno nella casa di Dio, come una lucerna quando è posta sopra il lucerniere (cf. Mt 5,15).

Intanto, mentre c’era attesa per il ritorno del messaggero, Romualdo disse ai fratelli che erano con lui: «Sappiate senza dubbio che quel fratello arriverà troppo tardi e ci conviene partircene con un’altra nave, prima del suo ritorno».

Venuto il santo giorno della domenica, al primo albeggiare così egli disse a Ingelberto, un fratello che gli stava accanto e che più tardi sarebbe diventato arcivescovo missionario: «Guarda lontano nel mare. Vedrai due navi, ancora molto distanti dirigersi verso di noi alla stessa velocità. Una di quelle, appunto, ci imbarcherà».

L’altro, allora, incuriosito, si mise a scrutare attentamente aguzzando la vista in ogni direzione, ma non riuscì a scorgere nessun segno di navigazione. Poi, quando il giorno si andava ormai rischiarando vide all’orizzonte le due navi venute da lontano, ma per l’eccessiva distanza parevano quasi due uccelli. Quando esse furono entrate nel porto, fu chiesto ai naviganti se volevano far salire sulla loro nave Romualdo con i suoi. Subito pieni di inaspettata letizia, essi gli misero a disposizione se stessi e tutto ciò che avevano e si dichiararono felici di avere come carico una perla tanto preziosa.

Per quel giorno, però non vollero partire, intimoriti da un cielo minaccioso. Romualdo li esortò lo stesso a sperare nella grazia divina e a intraprendere subito il viaggio, garantendo che non avrebbero corso alcun rischio. Ma, per tutta la giornata, essi rimasero lì e solo quando fu notte cominciarono a navigare.

Verso l’alba improvvisamente si scatenò il vento, scoppiò una tempesta e il mare diventò profondamente agitato. Ben presto le onde tempestose cominciarono a riversarsi da ogni parte sui marinai, a scuotere la nave da tutti i lati e a sconquassarne quasi tutte le assi. Si vedevano alcuni uomini spogliarsi e gettarsi a nuoto, altri attaccarsi al timone, altri tenere stretti i remi o altri legni per poter rimanere a galla. Il pericolo era così grave da non lasciar dubbi sull’imminenza di un naufragio. Ma Romualdo fece ricorso alla sua consueta difesa; ossia alla preghiera. Abbassato un po’ il cappuccio, chinò il capo sul grembo e in silenzio rivolse a Dio la sua preghiera. Poi, con fare sicuro ingiunse all’abate Ausone, che gli stava di fronte: «Annuncia ai marinai di non aver più paura. Stiano pur certi, senza pericolo di smentita, di uscirne sani e salvi».

Passò ancora qualche istante ed ecco, contro le aspettative di tutti e senza intervento d’uomo, la nave si diresse da se stessa ed entrò spedita e veloce nel porto di Caorle. Tutti allora resero grazie a Dio liberatore e riconobbero apertamente di essere stati strappati alla morte per i meriti di Romualdo.

 

 

34. Romualdo cerca di correggere gli eremiti di Biforco.

Una lezione importante: l’eremo per S. Romualdo non significa tanto lo stare soli (solitudine = privacy) quanto il vivere nella più completa semplicità e umiltà, per darsi alla preghiera del cuore. Romualdo tenta di far osservare dagli eremiti di Biforco le norme fondamentali della vita benedettina; non ci riesce, malgrado l’amicizia che lo lega ai fratelli e al luogo.

 

Quando Romualdo venne a Biforco, osservò le celle di tutti i fratelli e, poiché per certe superfluità gli apparivano sontuose, non volle essere ospitato in nessun’altra che in quella in cui abitava il suo amato discepolo Pietro. Quest’uomo, veramente ammirevole per la sua astinenza e per la sua grande elevatezza, a imitazione di S. Ilarione non permetteva quasi mai che gli si costruisse una cella larga più di quattro cubiti.

 Pietro riferiva più tardi che Romualdo, nel periodo in cui abitò da lui e cantava alternandoli con lui i versetti dei Salmi, durante la notte fingeva di andare tre o più volte per i suoi bisogni naturali, mentre la vera ragione era che, per l’abbondanza delle lacrime, non riusciva a trattenere i singhiozzi.

 Romualdo si fermò a Biforco per un certo periodo. Ammaestrava i fratelli non solo sul combattimento spirituale, ma anche a sottomettersi a un abate e ad avere ogni cosa in comune. Ma essi non si curarono granché di accogliere l’insegnamento di Romualdo, poiché ciascuno di loro aveva chi lo manteneva e agiva liberamente secondo il proprio arbitrio.

 

 

35. A Val di Castro Romualdo porta molto frutto per il regno di Dio.

Un capitolo che introduce e riassume la fase più «apostolica» della vita di Romualdo.

Egli è sterilitatis impatiens—«non si rassegna a vivere nella sterilità». Un eremitismo fine a se stesso, ridotto allo stare soli e basta, è radicalmente incompatibile con il Vangelo. Nella Chiesa, tempio dello Spirito, c’è una grande varietà di carismi: una persona gode del dono della preghiera, un’altra di quello della predicazione, un‘altra ancora del privilegio di servire i poveri, eccetera. Ma tutti possono e devono portare frutto per la salvezza del mondo. Altri capitoli della VR (37, 43, 52) parlano di Romualdo predicatore e del seguito ottenuto tra la gente.

La fondazione di Val di Castro, presso Poggio S. Romualdo, a nord del Monte S. Vicino tra Fabriano e Cingoli, risale probabilmente all’autunno del 1005. Si noti la fondazione di un monastero femminile nella stessa zona (per la fondazione di un altro, vedi il cap. 63). Nella storia della famiglia benedettina camaldolese le monache hanno avuto una parte notevole: in passato un certo numero di monasteri camaldolesi erano doppi, con monache e monaci, a volte retti da una badessa, o alternativamente dalla badessa e dal priore. Attualmente la famiglia camaldolese consta di un numero pressoché uguale di monache e monaci.

 

Romualdo, non rassegnandosi a vivere nella sterilità e ansioso di fare il bene, partì in cerca di una terra che gli consentisse di portare frutto di anime. Mandò dei messaggeri ai conti di Camerino e questi all’udire il nome di Romualdo, furono così pieni di gioia che gli offrirono possedimenti di loro proprietà: boschi, montagne, o addirittura terreni coltivati, se era di suo gradimento. Fu trovato, infine, tra i loro possedimenti, un luogo particolarmente idoneo per condurvi vita eremitica, circondato da montagne e da boschi. In mezzo c’era una vasta pianura adatta ai cereali e per di più bagnata da limpide sorgenti. La località aveva, dall’antichità, il nome di Val di Castro. Vi era già una chiesetta, presso la quale un tempo era esistito un convento femminile. Non appena i conti gli ebbero concesso il luogo, l’uomo di Dio vi fece costruire delle celle e cominciò ad abitarvi insieme ai suoi discepoli.

Come descrivere, con l’inchiostro o con la voce, i tanti frutti di anime che a Val di Castro il Signore si acquistò per mezzo di Romualdo? Cominciarono ad affluire uomini da ogni dove al richiamo della penitenza, a donare misericordiosamente i loro beni ai poveri, ad abbandonare completamente il mondo, a professare con fervore la vita monastica. E il beato era come uno dei serafini: ardeva in se stesso di amore divino oltre ogni paragone e, dovunque si recasse, ne accendeva gli altri mediante le torce della sua santa predicazione.

Spesso, mentre predicava, la compunzione lo muoveva talmente alle lacrime che doveva improvvisamente lasciare interrotto il discorso e scapparsene come un pazzo da qualche altra parte. E quando andava, con i fratelli, a cavallo, restandosene alquanto indietro a salmodiare di continuo, non cessava mai di versare lacrime. Ugualmente quando era nella cella.

Riprendeva con la più dura severità specialmente i chierici secolari che avevano ottenuto l’ordinazione per denaro. Affermava che, se non avessero abbandonato spontaneamente il loro grado, sarebbero stati senz’altro degni di dannazione ed eretici. All’udire queste novità, quelli macchinarono di ucciderlo. Fino all’epoca di Romualdo, infatti, in tutto quello stato uno a stento poteva rendersi conto che l’eresia simoniaca fosse peccato, talmente ne era invalsa l’abitudine. Romualdo disse loro: «Portatemi dei libri contenenti i canoni, così lo vedrete dalle stesse vostre pagine se è vero ciò che vi dico». E dopo un diligente controllo, essi riconobbero la loro colpa e la piansero. Allora il santo organizzò diverse canoniche e insegnò ai chierici di vita secolare a obbedire a dei superiori e a vivere in comunità.

Da lui correvano per far penitenza anche alcuni vescovi, che avevano invaso le sedi episcopali mediante la simonia. Si affidavano all’uomo di Dio e gli promettevano di fissare una scadenza per lasciare l’episcopato e darsi alla santa vita monastica. Ma dubito che il santo, in tutta la sua vita, abbia mai potuto convertirne uno. Quell’eresia velenosa infatti, specialmente quando si tratta dell’ordine episcopale, è talmente dura e resistente alla conversione che, tra un continuo promettere, un tergiversare di giorno in giorno e un rimandare al domani, alla fine è più facile convertire alla fede un giudeo che muovere a penitenza completa uno di quegli usurpatori eretici.

Nella stessa zona, inoltre, il santo fondò anche un monastero femminile.

 

 

36. Un ladro forza la cella di un monaco, ma Romualdo lo rimanda libero.

Con questo capitolo ha inizio una serie di fioretti romualdini che si ispirano alle fonti monastiche tradizionali (la vita di S. Benedetto narrata nel II libro dei Dialoghi di Gregorio Magno, gli Apoftegmata Patrum ecc.). Pochi di questi episodi sono databili o localizzabili; si svolgono, però, fra due date certe: l’udienza papale della primavera del 1010 in cui Romualdo chiede a Sergio IV il permesso per sé e per i suoi discepoli di partire missionari per l’Ungheria; e l’incontro con l’imperatore Enrico II, avvenuto a Lucca il mercoledì 25 luglio 1022 (cap. 63).Qui è nominato il monaco Gregorio, di cui ai capitoli 53 e 55.

Nel cap. 36 Romualdo manifesta di nuovo quello che oggi chiamiamo «l’opzione preferenziale per i poveri»: conoscendo le condizioni di miseria che spingevano la povera gente a rubare, Romualdo non poteva fare altro che dare da mangiare al ladro, alfine di stabilire con lui un rapporto di fiducia. Allora, in base a tale rapporto, avrebbe potuto anche ammonirlo «con dolci parole ».

 

In un giorno di festa l’uomo di Dio sedeva in capitolo con i fratelli e li cibava di dottrina della salvezza. Ad un tratto interruppe il discorso e, con viva preoccupazione, si mise ad esclamare: «Presto, presto, accorrete subito, sta fracassando la cella di fratello Gregorio!». Questo Gregorio in seguito fu consacrato arcivescovo missionario.

Accorsi rapidamente alla cella, essi vi trovarono un ladro che stava facendo a pezzi le pareti. Lo presero e lo trascinarono dal loro maestro e gli chiesero che cosa si doveva fare di un rapinatore colpevole di un sacrilegio così grave. Il santo prese a dire divertito: «Fratelli, non lo so neanch’io che cosa potremmo fare a un uomo così malvagio. Cavargli gli occhi? ma poi non ci vedrebbe. Tagliargli una mano? Così non potrebbe più lavorare e forse morirebbe di fame. Mozzargli un piede? non potrebbe più camminare. Portatelo dentro e, per cominciare, mettetegli davanti da mangiare, così, nel frattempo, noi discuteremo che cosa fargli».

Allora il santo esultò nel Signore. E dopo aver nutrito il ladro, lo riprese con moderazione, lo ammonì con dolcezza e gli permise di tornarsene a casa in pace.

 

 

37. Romualdo edifica un monastero a Orvieto.

A Orvieto, come a Sitria (cap. 52), Romualdo cerca di «associare tutto il popolo all’ordine monastico». I monaci, per Romualdo, non devono considerarsi come un’élite, un corpo separato, bensì come il lievito nella massa dei fedeli.

 

Da ultimo lasciò in Val di Castro alcuni suoi discepoli e si recò nella regione di Orvieto. Qui fece costruire un monastero in un possedimento del conte Farolfo, che ne sostenne anche le maggiori spese, sebbene vi fossero molti altri contributi.

Nel cuore del santo l’ardore di portare frutti era così forte che non si sentiva mai contento di quanto realizzava. E mentre ancora svolgeva un’attività, già si teneva pronto per un’altra. Si sarebbe detto, insomma, che avesse l’intenzione di convertire il mondo intero in un eremo e associare tutto il popolo all’ordine monastico. Anche in questo luogo egli sottrasse al mondo molti uomini, che poi distribuì in diverse comunità.

 

 

38. Un giovane discepolo di Romualdo, dopo la morte dà la vista a un cieco.

La tradizione agiografica umbra parla di un «S. Guidino», figlio di Farolfo conte di Orvieto, di cui nel capitolo precedente.

 

Anche alcuni figli di nobili, lasciati i genitori, andavano a rifugiarsi presso l’uomo di Dio. Fu tra questi il figlio del conte Guido, che si fece monaco ancora ragazzo. Non molto tempo dopo si avvicinò per lui il momento della morte. E allora vide due spiriti malvagi, simili ad avvoltoi nerissimi, che lo fissavano con occhi terrificanti. Il ragazzo riferì la cosa a Romualdo, che lo stava assistendo, e subito dopo aggiunse: «Ecco, maestro, adesso stanno entrando tanti demoni in forma umana da riempire tutta la stanza».

Romualdo lo esortò: «Se tu hai commesso qualche mancanza, è ora di confessarla». Fortunato peccatore, egli confessò con grande apprensione questa sola colpa: «Il priore mi ha ordinato di sottopormi ad alcuni colpi di verga, e non li ho ancora ricevuti». Così, ebbe da Romualdo il perdono del suo «delitto» e morì nella pace.

Il giorno dopo, venne alla sua tomba un cieco, che viveva della beneficenza di suo padre, e gridò a voce alta: «Ah, padrone mio, se, come credo, tu sei con Dio, pregalo per me e restituiscimi la luce degli occhi». Appena dette queste parole, ebbe la luce.

Anche altri ammalati vennero alla sua tomba e ottennero la guarigione. In questo modo meritò di essere onorato da Dio dopo la morte chi, per suo amore, aveva disprezzato in vita l’eredità dei genitori terreni.

 

 

39. Romualdo fonda tre monasteri e parte per l’Ungheria.

Siamo nel 1010.

Il tema del monacato come martirio è una costante nella letteratura monastica antica. Si parla del «martirio di fede» (Vita di Antonio 23) e del «martirio di esilio» (Vita di Ilarione 39); più avanti, al cap. 64, troveremo «il martirio volontario». Lo zelo missionario di Romualdo e dei suoi si ispira al ricordo dell’evangelizzazione della Germania da parte di Bonifacio, di Lioba e di altri santi monaci e monache.

 I due discepoli consacrati arcivescovi sono Ingelberto (cap. 33) e Gregorio (cap. 36). Il fatto che Pier Damiano continua a parlare di loro lascia supporre che entrambi siano tornati insieme a Romualdo, ma è più probabile che, almeno nel caso di Gregorio, il Damiano non segua un ordine cronologico. Che significato può aver avuto la malattia misteriosa di Romualdo, che gli impedì di raggiungere l’Ungheria? Sappiamo che in quegli anni S. Stefano, re dei magiari, avrebbe preferito seguire l’esempio di S. Vladimiro e affidare l’evangelizzazione del suo popolo ai missionari bizantini; però accoglieva volentieri anche quelli provenienti dall’Occidente, che gli offrivano una certa garanzia contro le ingerenze politiche di Enrico, l’imperatore sassone. Stante questa situazione politico-ecclesiastica piuttosto ambigua, Romualdo non si sarebbe sentito di prendere parte in una competizione fra le Chiese d ‘Occidente e d ‘Oriente.

 Romualdo, dice Bruno Bonifacio, non volle mai essere «abate dei corpi, ma solo delle anime»; per cui egli lasciava ai suoi discepoli la facoltà di scegliere il loro superiore. Purtroppo, Romualdo non rimase quasi mai contento della scelta. Lo troviamo spesso in litigio con gli abati: qui a Orvieto, poi a Classe (cap. 41), a Val di Castro (45), a Sitria (64) e al monastero sul Monte Amiata (65).

 

Quando venne a sapere che [Bruno] Bonifacio aveva ricevuto il martirio, Romualdo si sentì bruciare dal grande desiderio di versare il suo sangue per Cristo e decise, ben presto, di andare in Ungheria. Nel frattempo, però, pur rimanendo fermo in questa sua intenzione, fondò in breve volgere di tempo tre monasteri. Uno è quello di Val di Castro, dove è attualmente riposto il suo corpo santissimo, l’altro presso il fiume Esino e il terzo nelle vicinanze di Ascoli. Più tardi quando ne ebbe ottenuto licenza dalla sede apostolica e due suoi discepoli furono consacrati arcivescovi, insieme a ventiquattro fratelli si mise in viaggio. In tutti lo zelo di morire per Cristo era così ardente che il sant’uomo difficilmente sarebbe potuto partire con pochi compagni.

 Nell’andare, erano giunti ormai nel territorio ungherese, quando improvvisamente Romualdo si ammalò e non poté proseguire. Aveva lunghi periodi di malattia, ma quando si disponeva a tornare indietro, subito si sentiva guarito. Se invece tentava di continuare il viaggio, gli si gonfiava subito tutta la faccia e per il mal di stomaco non riusciva a trattenere il cibo. Allora convocò i fratelli e disse loro: «Capisco che non sia affatto volontà di Dio che io prosegua il viaggio. Non voglio, però, ignorare i vostri desideri e pertanto non chiedo a nessuno di voi di tornare indietro. Certo, anche prima di noi, molte persone hanno tentato con ogni sforzo di raggiungere le vette del martirio, ma avendo la divina provvidenza stabilito diversamente, sono state costrette a rimanere nel loro stato. Ora, sebbene io non dubiti che nessuno di voi subirà il martirio, lascio a ciascuno di decidere se proseguire o tornare con me».

 Quindici di loro andarono in Ungheria, altri due erano già stati congedati per un’altra destinazione, così furono appena sette i discepoli che rimasero con il loro maestro. Alcuni di quelli che proseguirono furono flagellati, venduti e dovettero più volte cambiare padrone. Ma, come aveva predetto il santo, non pervennero al martirio.

 Poi Romualdo convertì vari tedeschi, fra cui uno dell’alta nobiltà, parente del duca Adalberone, che si fece monaco e perseverò in quella santa vita fino alla morte. Quindi ritornò al monastero che aveva fatto costruire nella regione di Orvieto. Si tenga presente che il santo non si era dunque ingannato a vuoto, come se avesse agito alla leggera. Nella sua intenzione egli aveva subito il martirio, mentre nel disegno di Dio era stato inviato a salvare coloro che egli convertì.

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o menzionato dovette soffrire molti scandali e persecuzioni. Avrebbe voluto che l’abate, da vero monaco amasse la perfezione, non trattasse affari secolari per bramosia, non spendesse per vanagloria i beni del monastero, che somministrasse ai fratelli il necessario per i loro bisogni. Tutte cose di fronte alle quali quello era invece sprezzante e sordo. Perciò Romualdo, insieme ai suoi discepoli, abbandonò quel luogo e andò ad abitare vicino a Preggio, in una proprietà di Ranieri, il futuro marchese di Toscana.

 

 

40. Romualdo incute timore ai potenti.

Romualdo, come la maggior parte dei santi, mette paura ai potenti, non ai ladruncoli (vedi capitoli 36).

 

Ranieri aveva ripudiato la moglie a motivo dei suoi parenti e si era unito con la moglie di un suo consanguineo, che egli stesso aveva ucciso, quasi involontariamente, mentre ne era inseguito. Per questa ragione, Romualdo, per non rendersi suo complice, non volle abitare gratuitamente in un suo possedimento e gli pagò una moneta d’oro per l’acqua e un’altra per la legna. Ranieri avrebbe voluto assolutamente rifiutarle, avrebbe preferito dare anziché ricevere qualcosa dal santo. Finì però con l’arrendersi e acconsentire piuttosto che vedere Romualdo andar via.

Dopo aver ottenuto il marchesato, Ranieri diceva: «Né l’imperatore né alcun altro mortale sono capaci di incutermi una paura pari al terrore che mi dà lo sguardo di Romualdo. Davanti a lui non so più cosa dire, non trovo più alcuna scusa con cui difendermi». E veramente il santo, per un dono divino, possedeva la grazia di far subito tremare, come davanti alla stessa maestà di Dio, qualunque peccatore si trovasse alla sua presenza, e specialmente i potenti del mondo. Era certamente lo Spirito santo, che abitava nel suo cuore, a infondere divinamente un tale terrore agli iniqui.

In quel periodo Romualdo curò la costruzione di un monastero non lontano da Massiliano.

 

 

41. L’abate di Classe tenta di strangolare Romualdo.

Di nuovo Romualdo si trova in conflitto con le autorità ecclesiastiche. Insieme con lui c’è Ingelberto, che verosimilmente è lo stesso che fu ordinato vescovo e partì con Romualdo per l’Ungheria (vedi capitoli 39, 56, 57). Però non è possibile determinare se l’episodio qui riferito avvenisse prima della loro partenza o dopo il loro ritorno.

 

Quando però venne a sapere che un veneziano si era impadronito dell’abbazia di Classe comprandola per simonia e che, per di più, peccava iniquamente nel suo corpo, il soldato di Cristo volle subito recarvisi senza perdere tempo e tentò in vari modi di purificare il monastero da quella persona. Ma quell’uomo dannato, preso dalla paura di perdere l’abbazia, non provò alcun timore a perpetrare un omicidio.

 In una notte tempestosa, mente Romualdo riposava al sicuro nel suo letto, gli si avvicinò di nascosto e con le sua dita empie cominciò a stringergli la gola, sforzandosi crudelmente di soffocarlo. Il santo, non essendogli stato ancora tolto del tutto il respiro, si lamentava raucamente con il poco fiato che riusciva a tirar fuori. Svegliato dai rantoli del maestro, Ingelberto prese subito un tizzone dalla brace e così allontanò quel ministro del diavolo dal delitto nefando che aveva intrapreso.

 

 

42. Romualdo va a Parenzo, ma il papa lo richiama in Italia.

Si tratta dell’ultimo viaggio di Romualdo fuori d’Italia, verosimilmente con l’intenzione di predicare il vangelo, ad imitazione dei propri discepoli martiri.

 

Dopo questi fatti, Romualdo s’imbarcò ancora una volta per Parenzo. Ma il papa e i cittadini romani gli mandarono una delegazione per farlo tornare indietro. Gli promettevano di attenersi a tutte le sue prescrizioni, qualora fosse ritornato. In caso contrario, gli veniva comminata una sentenza di scomunica. Fu grazie a questo espediente che l’Italia discepola di lui, poté riavere il suo maestro Romualdo.

 

 

43. Romualdo costruisce un eremo fra i monti di Cagli.

Cagli è sulla via Flaminia, 20 chilometri a sud di Urbino; sempre sulla via Flamini verso il mare, a circa 15 chilometri da Cagli, si trova la gola e il passo del Furlo, cui sovrasta il Mons. Petranus, chiamato anche Pietralata o Petra Pertusa. All’inizio della grande gola, accanto al fiume Candigliano, si trova il monastero di S. Vincenzo, dove Pier Damiano ha iniziato a scrivere la VR.

Di nuovo Romualdo tratta con delicatezza un povero uomo costretto a rubare (cf: cap. 36).

 

In quel tempo Romualdo rimase per un certo periodo tra le gole dei monti di Cagli, poi si trasferì sul monte Petrano, non lontano dal monastero di S. Vincenzo presso il fiume Candigliano. Dovunque andasse il santo riportava sempre frutto, guadagnava sempre un numero via via crescente di anime e convertiva uomini dalla vita mondana. E come se si fosse tramutato in un fuoco, accendeva gli uomini al desiderio del cielo. Adesso voleva trovare un luogo idoneo a costruirvi un eremo.

 A un prete che stava tornando a casa, chiese di portare del cibo per lui e per i suoi compagni. Cominciò quindi a perlustrare accuratamente quella montagna e, trovato finalmente un monaco che abitava presso una piccola chiesa, subito gli chiese di accompagnarlo e di mostrargli un posto dove ci fosse acqua. Quello naturalmente disse che non poteva lasciare la casa incustodita, per paura dei ladri. Romualdo gli garantì che, in una simile eventualità, lo avrebbe rimborsato per intero. E così, accollandosi un debito per danni altrui, poté condurre con sé quel monaco.

 Mentre stavano andando in cerca del luogo, il prete, come gli era stato chiesto, venne a portare il pranzo. Ma ecco che trovò un ladro che stava per scassinare la casa, lo catturò e, fino al ritorno di Romualdo lo tenne sotto la sua sorveglianza.

 Romualdo, quando trovò quell’uomo, cercò dapprima di riprenderlo con parole di paterna severità, poi lo ammonì con mitezza e gli permise di tornarsene a casa sano e salvo. Evidentemente, la divina provvidenza aveva voluto conservare intatto quanto era stato affidato alla custodia di Romualdo, sebbene assente.

 

 

44. Romualdo vede in spirito due ladri.

Un’altra volta, Romualdo era intento a costruire delle celle nella stessa zona. A una certa distanza, sotto un sasso era stata disposta la loro roba. Ad un tratto egli, con forza, fece accorrere là uno dei fratelli, ordinandogli di agire in tutta fretta. Costui vi sorprese dei ladri che stavano ormai tentando di rubare, tuttavia poté costatare che ancora non mancava nulla di ciò che vi era stato depositato. Se ne deduce, giustamente, che Romualdo aveva mandato là con tanta sollecitudine il fratello per impulso di una rivelazione divina, nel momento preciso in cui i ladri si avvicinavano alle loro cose incustodite.

 

 

45. Romualdo cerca di correggere l’abate di Val di Castro.

Come a Orvieto (cap. 39) e a Classe (41), Romualdo non può accettare che il superiore di un monastero si comporti alla maniera di un signore feudale.

 

In seguito Romualdo ritornò al monastero di Val di Castro. Qui esortò subito l’abate a governare gli altri senza per questo trascurare se stesso. Voleva, inoltre, che non abbandonasse affatto, con la scusa della sua carica, la sua solita cella, che vivesse al suo interno in solitudine e secondo lo spirito e si limitasse a visitare i fratelli nei giorni di festa per ammaestrarli.

Il modo di vivere che oggi vediamo prevalere fra gli abati rimaneva così odioso a Romualdo che il poter sottrarre alle loro mani un’abbazia gli procurava la stessa gioia di quando poteva introdurre alla vita monastica qualcuno dei secolari più potenti. Sennonché: «Aceto su una piaga viva, tali sono i canti per un cuore perverso», come dice Salomone[cf. Pr 25, 20]. Quell’abate, alla predicazione di Romualdo, diventò ancora peggiore. Si presentò ben presto alle contesse proprietarie del luogo e le persuase con sacrilega astuzia e far tagliare a pezzi il legname con cui si doveva costruire una cella per Romualdo. Fu così che questo alto cedro di paradiso venne cacciato dalle selve degli uomini terreni.

 

 

46. Romualdo guarisce un prete dal mal di denti.

Il «Monte Appennino» di cui si parla è situato nella provincia di Perugia, vicino ad altre fondazioni romualdine nelle alte Marche; di là Romualdo si sarebbe recato a Sitria (cap. 49).

Qui, come al cap. 51, Romualdo si sdegna con i discepoli ogni qualvolta tentano di attribuirgli miracoli o visioni.

 

Venuto via di là, stabilì la sua residenza nel luogo detto Acquabella, non lontano dal Monte Appennino. Mentre alcuni secolari stavano costruendo, insieme ai suoi discepoli, i tetti delle abitazioni, Romualdo, ormai impossibilitato al lavoro per la vecchiaia, se ne stava solo a guardia dell’ospizio.

 Per un mal di denti insopportabile, un prete lasciò contro voglia il lavoro, chiese il permesso ai fratelli e si avviò verso casa lamentandosi miseramente. Quando, all’uscire, passò accanto a Romualdo, questi gli chiese perché se ne andasse e lui gli spiegò il motivo della sua sofferenza. E, mentre teneva aperta la bocca, Romualdo gli toccò con un dito il punto dov’era il dolore e gli disse: «Metti una lesina rovente su una canna, per non bruciare il labbro, e accostala qui. Il dolore passerà».

 Il prete non aveva fatto nemmeno cinquanta metri quando improvvisamente il dolore cessò. Allora ritornò sano e salvo al lavoro abbandonato. Gridava a voce spiegata: «Ti rendiamo grazie, Dio onnipotente, perché ti sei degnato di visitare la nostra regione con lo splendore di un astro così grande. Veramente nella nostra terra è apparso un angelo di Dio, un profeta santo, una grande luce nascosta al mondo». Proclamava queste e molte altre lodi a Dio e a stento gli altri discepoli lo costrinsero a tacere. Infatti, se in qualche occasione giungevano alle orecchie di Romualdo parole di quel genere, il suo cuore ne restava ferito di gravissimo sdegno.

 

 

47. Un faggio, sovrastante la cella di Romualdo, abbattuto cade nella direzione opposta.

Un episodio né databile né localizzabile; nel secolo XIII alcuni manoscritti della VR specificano che il «miracolo del faggio» avvenne al Sacro Eremo di Camaldoli.

 

In un’altra circostanza, egli aveva dato ordine di tagliare un grande faggio che era vicino alla sua cella. Questo faggio era così inclinato e addossato alla cella che, se fosse caduto, a quel che si poteva presumere, avrebbe senz’altro distrutto di colpo tutto l’edificio. Nell’eseguire l’ordine, gli operai erano in apprensione per la caduta dell’albero. Quando, a forza di colpi di scure da un lato, ebbero raggiunto l’interno del tronco, l’albero, fuori d’ogni dubbio, minacciava ormai di cadere su di lui. Allora cominciarono a chiedergli e gridargli con insistenza e con foga di lasciar perdere la cella, di uscir fuori e mettersi in salvo.

Senza cedere per nulla alle loro urla, lui dette invece l’ordine di completare il lavoro iniziato. Il faggio cadde con un boato profondo, ma, per potenza divina, finì in un’altra direzione. Tra lo stupore di tutti la cella era rimasta completamente intatta. Meravigliati davanti a un miracolo così grande, tutti levarono al cielo le loro voci gioiose e resero a Dio grazie infinite.

 

 

48. Un contadino travolto dalla caduta di un leccio, rimane illeso.

Per associazione di idee, il Damiano racconta qui un altro aneddoto riguardante gli operai che assistono Romualdo nella costruzione di un eremo.

 

Perché parlare di come Dio custodiva quell’uomo di Dio, dal momento che è risaputo che spesso anche altre persone venivano salvate da gravi pericoli grazie alla sua presenza? Basterà, adesso, ricordare uno di questi fatti e il lettore avveduto si renderà conto che ve ne dovettero essere molti altri.

Una volta, sul monte Petrano, trattenendosi egli stesso con gli operai, faceva tagliare un leccio enorme. L’albero, che pendeva sopra un dirupo, andava inclinandosi verso il basso. Poco sotto, però, c’era un contadino. L’albero, una volta tagliato, crollò pesantemente, rotolò lungo la china finendo nel precipizio, travolse di sorpresa il contadino e lo trascinò in basso. Tutti si misero subito a gridare addolorati. Pensavano che l’uomo fosse morto e, addirittura, che il suo corpo fosse rimasto interamente dilaniato. Ma la potenza divina fu stupefacente.

Quell’uomo venne subito ritrovato sano e salvo, come se gli fosse cascata addosso una foglia, anziché tutto l’albero. Si può capire da ciò il grande peso che avevano presso Dio i meriti del santo: alla sua presenza l’enorme mole di quell’albero aveva perduto ogni peso.

 

 

49. Romualdo subisce un’infame calunnia da parte degli eremiti di Sitria.

Il caso di un monaco che indulge in pratiche omosessuali non doveva essere cosa inaudita ai tempi di S. Pier Damiano. Nel corso dei secoli XI e XII diventeranno sempre più frequenti le condanne di ogni permissivismo in questioni di rapporti ambigui fra persone del medesimo sesso. Il Damiano si meraviglia che i monaci di Sitria abbiano potuto credere che Romualdo stesso fosse coinvolto in un tale rapporto. Noi pure ci meravigliamo, leggendo quanto dice l’autore, al capitolo 64, sull’estremo rigore ascetico osservato nell’eremo di Sitria. Ma non dovremmo meravigliarci più di tanto: non c’è bisogno della psicologia scientifica moderna per rendersi conto di come la mortificazione indiscreta del corpo e degli affetti può suscitare reazioni estreme in senso opposto.

E’ forse a partire da questa triste esperienza che Romualdo abbandona definitivamente la sua consuetudine di condividere la cella con un compagno (vedi nota al cap. 6). Infatti a Camaldoli egli vorrà che i monaci vivano separatamente, ognuno nella propria casetta.

 

Dopo qualche tempo, Romualdo lasciò l’Appennino e andò ad abitare sul monte di Sitria. Sentendo parlare di tutti questi spostamenti del santo, si badi però di non attribuire al vizio della leggerezza quanto proveniva invece dalla gravità della sua attività religiosa. Indiscutibilmente, i suoi spostamenti erano motivati dal fatto che, dovunque l’uomo di Dio si fermasse, accorreva da lui una turba quasi innumerevole di persone. Il buon senso esigeva dunque che, una volta constatato che un luogo era ormai pieno e nominato il priore, si affrettava a riempire un altro luogo. Saremmo incapaci di esporre tutte le ingiurie e gli scandali che egli subì in Sitria da parte dei suoi discepoli. Ne segnaliamo uno, tralasciando gli altri per brevità.

 C’era un discepolo di nome Romano, di stirpe nobile, ma affatto degenerato nel suo agire. Il santo, oltre a rimproverarlo a parole per la sua impurità carnale, spesso lo puniva con le più gravi percosse. Quell’uomo diabolico, allora, ebbe l’ardire di accusarlo della sua stessa colpa. Imprudentemente latrò con la sua bocca sacrilega contro quel tempio dello Spirito Santo e disse che il santo si era macchiato con lui del suo stesso peccato.

Tutti i suoi discepoli furono subito presi contro di lui da ira e da ostilità. Chi gridava di impiccare quel vecchio scellerato, chi giudicava di doverlo bruciare insieme alla sua cella. La cosa che più lasciava stupiti è che uomini particolarmente spirituali potessero credere a un crimine così nefando da parte di un vecchio decrepito e più che centenario. Quand’anche lo avesse voluto, la natura, la fragilità e la sterilità del suo corpo svigorito gliel’avrebbero reso impossibile. Piuttosto, è da credere che tutto questo, pur nella sua gravità, avvenisse per volere celeste per accrescere i meriti del santo. Del resto, egli stesso asseriva di aver avuto conoscenza di ciò già all’eremo in cui era stato in precedenza e di esser venuto prontamente appunto per subire questo disonore.

 Quanto al reprobo sarabaita che aveva accusato di delitto il santo, in seguito acquistò con eresia simoniaca l’episcopato di Nocera e lo tenne per due anni. Durante il primo, vide bruciata, come meritava, la sua abitazione, insieme con i libri, le campane e i paramenti sacri. Durante il secondo anno, colpito da sentenza divina, perse dignità e vita.

 

 

50. Gli eremiti di Sitria sospendono Romualdo a divinis

Di nuovo vediamo come la coscienza ipersensibile di Romualdo lo conduce a comportamenti poco logici. Contro le accuse di abusi sessuali non si difende, né gli importa l’opinione che i propri discepoli hanno di lui. Egli assume su di sé lo stigma della trasgressione che non ha commesso e si sottomette alla pena che non merita. E’ poco logico tale comportamento, ma la coscienza veramente libera, come lo Spirito Santo, non segue la logica lineare delle leggi umane o ecclesiastiche.

Però a volte Romualdo eccede, come in questo caso, e la sua voce interiore gli rimprovera la sua «indiscreta semplicità».Gli ordina di riprendere la vita monastica normale e di continuare il suo servizio agli altri scrivendo un commentario sui Salmi. Alla fine fa l’esperienza di un’estasi silenziosa, da confrontare con il giubilo al capitolo 31.

 

Come se avesse commesso davvero quel delitto, i discepoli imposero al santo una penitenza e gli tolsero del tutto il permesso di celebrare i sacri misteri. Egli abbracciò volentieri quel provvedimento pregiudiziale, si attenne alla penitenza come se fosse stato veramente colpevole e per circa sei mesi non si azzardò ad accostarsi al santo altare. Finalmente, però, come riferì egli stesso ai suoi discepoli, gli venne comandato da Dio di mettere risolutamente da parte la sua eccessiva ingenuità e di celebrare con piena fiducia i sacri misteri della messa, se gli premeva di non perdere la grazia divina.

 Così, il giorno dopo incominciò a celebrare. Giunto alla preghiera eucaristica, fu rapito in estasi e rimase a lungo in silenzio fra lo stupore di tutti i presenti. Gli fu chiesto, poi, il perché di tutte quelle pause fuori del suo solito durante l’offerta del sacrificio. Rispose: «Sono stato rapito in cielo e presentato davanti a Dio. E immediatamente mi è stato comandato da voce divina di spiegare i salmi secondo l’intelligenza che Dio mi ha dato e di farlo per scritto, ordinatamente, secondo la mia comprensione. Io mi sentivo oppresso da un terrore enorme e inesprimibile e non ho potuto rispondere altro che: Fiat! fiat!».

Per questo il santo, in seguito, curò un’eccellente commento di tutto il salterio e di alcuni cantici dei profeti, e sebbene sbagliasse quanto alla grammatica, ne azzeccava sempre il significato.

 

 

51. L’anima di Romualdo viene portata davanti a Dio candida come la neve.

Un apoftegma di Romualdo associato al capitolo precedente per il riferimento dell’estasi. Romualdo parla di sé come fa S. Paolo in II Corinzi 12,2-4.

 

Una volta i discepoli gli domandarono: «Maestro, di che età è l’aspetto di un’anima? e sotto quale forma viene presentata al giudizio?» Egli rispose: «Conosco un uomo in Cristo, la cui anima fu presentata davanti a Dio splendente come neve, in forma umana e con la statura propria dell’età perfetta».

Gli dissero allora chi fosse quell’uomo, e lui, sdegnato, li rimproverò dicendo: «Non voglio dirlo!». Ma i discepoli, parlandone fra di loro, attribuirono quel fatto a lui stesso, come infatti realmente era, e capirono dalla sicurezza di quella spiegazione che quell’uomo era lui.

 

 

52. A Sitria Romualdo vive in grande austerità, ad imitazione di S. Ilarione.

Di Ilarione, come di Romualdo, si dice che visse tacente lingua, praedicante vita. E nelle Vite dei padri IV si parla di un anziano che avendo desiderato gustare un cocomero, ne procurò uno e lo appese davanti ai suoi occhi, senza mangiarlo, per vincere il vizio della gola.

 

In Sitria, Romualdo rimase recluso per circa sette anni, osservando un silenzio continuo senza eccezioni. Tuttavia, tacendo con la lingua e predicando con la vita, poté impegnarsi, come quasi mai in passato, sia con gli uomini che volevano convertirsi sia con quelli che accorrevano a penitenza. Lui viveva in grande austerità, nonostante l’avanzare della vecchiaia, quando ormai anche gli uomini perfetti sogliono vivere con una certa libertà e alleggerire il rigore dei loro proponimenti.

 Per tutta la durata di una quaresima non ebbe altro cibo e bevanda che un brodo di poca farina e di qualche erba, a imitazione di Ilarione. Per cinque settimane si limitò a un po’ di passato di ceci e non mangiò altro. E con molti altri metodi di vita, Romualdo metteva alla prova le capacità della sua virtù, esercitandosi senza interruzione nell’uno e nell’altro. Con discrezione, questo soldato di Cristo si teneva sempre pronto per qualche nuova battaglia. Ma quando era sul punto di non reggere più, subito ricorreva alla misericordia e risollevava il corpo vacillante.

Portava due, e talvolta tre, cilici contro l’insorgere di molestie del corpo. E non permetteva che venissero lavati; li lasciava sotto la pioggia e li cambiava di solito ogni trenta giorni. Non lascio mai passare un rasoio sulla sua testa. Solo di rado, quando i capelli e la barba erano cresciuti troppo, soleva tagliarseli da sé con le forbici.

 A volte, quando il vizio della gola lo solleticava verso qualche ghiottoneria, se lo faceva subito cucinare accuratamente, lo accostava alla bocca e al naso, si limitava a sentirne l’odore e diceva: «Gola, gola! quanto ti sarebbe dolce e gradevole questo cibo! Peggio per te! Tu non lo assaggerai mai!». E lo rimandava intatto al dispensiere 34.

 

 

53. Romualdo guarisce Gregorio soffiandogli in fronte.

Romualdo mostra un volto sempre ilare come S. Antonio Abate (cf. Vita di Antonio 40 ). Qui e al cap. 55 Pier Damiano torna a parlare di Gregorio uno dei due discepoli fatti consacrare vescovi al tempo della spedizione missionaria in Ungheria (cap. 39style='font-family:). Può sembrare inverosimile che entrambi (cf. anche Ingelberto ai cap. 56 e 57) siano tornati insieme a Romualdo. Per cui si può supporre che gli episodi qui raccontati siano avvenuti prima del 1010. Della località degli episodi riguardanti Gregorio possiamo dire soltanto che non fu Sitria ma forse Val di Castro od Orvieto.

Le guarigioni operate da Romualdo hanno un carattere quasi sacramentale-liturgico. I malanni di Gregorio sono guariti o con il soffio dello Spirito (con allusione a Gesù che alitò sui discepoli in Gv 20,22) o con l ‘acqua (allusione al battesimo). Anche il pazzo al cap. 54 sente un «vento gagliardo» come i discepoli del Signore nel giorno di Pentecoste (cf: At 2,2).

 

Quantunque il santo usasse verso di sé tanta austerità, mostrava però sempre un volto allegro, un aspetto sereno. Una volta, un fratello di nome Gregorio, si doleva per un gravissimo mal di capo. Con grandi lamenti arrivò alla sua cella, dove si trovavano anche altri fratelli. Romualdo, appena lo vide, attribuì senza esitazione quel dolore non ad uno squilibrio di umori, ma a un artificio dell’antico nemico. Subito, quasi prendendosi gioco di lui, con la sua consueta allegria, soffiò sulla sua fronte dalla finestra della cella e fece cenno agli altri presenti di fare altrettanto. Quando ebbero fatto ciò, quello fu guarito, al punto che in testa non avvertiva più la minima traccia di dolore.

 Personalmente sono del parere che se il santo volle compiere quel gesto, fu perché credette che il grande nemico malefico, apportatore del dolore, doveva essere cacciato in virtù dello Spirito Santo che regnava nel suo cuore. Per non attirarsene le lodi, finse di scherzare e si cercò dei collaboratori. Si legge, del resto, che anche il nostro Redentore soffiò quando è detto che donò agli apostoli lo Spirito Santo [cf. Giovanni 20, 22].

 

 

54. Romualdo guarisce un pazzo con un bacio.

Per una pazza guarita per intercessione di S. Benedetto vedi Gregorio Magno, Dialoghi 2,38; altri pazzi e indemoniati guariti da Romualdo ai capitoli 59, 60, 70.

 

Un uomo soffriva di follia e aveva perduto la ragione fino al punto che non sapeva mai del tutto cosa stesse facendo o dicendo. A lui Romualdo non fece altro che dargli un bacio e lo riportò immediatamente alla sanità di un tempo. Offrendo la pace a quell’uomo irrequieto, lo ricondusse alla pace della mente.

 In seguito, l’uomo che era stato così risanato, riferiva: «Nel momento stesso che toccai le sue labbra sante, sentii uscire dalla sua bocca come un vento gagliardo che soffiandomi su tutta la faccia e intorno al capo, subito spense il fuoco che ardeva nel mio cervello».

 

 

55. Gregorio è liberato da una grave malattia con acqua fresca.

In un’altra circostanza lo stesso Gregorio sopra ricordato soffriva alle gambe di una scabbia così virulenta e putrida da pensare che un gonfiore di quella gravità dovesse derivare da elefantiasi. A lui Romualdo prescrisse questo originale tipo di terapia, lavarsi le gambe con acqua fredda per tre giorni. Gli promise che in questa maniera avrebbe recuperato la salute. Quello si premurò di fare ciò più per dovere di obbedienza che per la fiducia di guarire. Ed ecco una meraviglia attribuibile soltanto alla potenza di Dio: il gonfiore delle gambe cessò improvvisamente, la putrefazione si prosciugò e il fratello fu guarito completamente da ogni malessere.

 Si può credere, a ragione, che Romualdo, se comandò al discepolo di lavarsi tre volte le gambe gonfie nell’acqua, lo fece spinto con lo stesso spirito con cui Eliseo aveva comandato al lebbroso Naaman di lavarsi sette volte nel Giordano [cf. II Re 5, 10 ss].

 

 

56. Ingelberto rifiuta di riconoscere in Romualdo lo spirito di profezia.

L’Ingelberto dei capitoli 56-57 è il perfetto esempio dell’eremita che, fra digiuni e austerità, rimane un uomo carnale. Separatosi da Romualdo, uomo dello Spirito, Ingelberto presume di dirigere gli altri, senza quella discrezione e quell’umiltà che sono i segni immancabili del vero eremita.

 

Alcuni uomini carnali non temevano di rimproverarlo malignamente e di attribuire le sue parole e le sue azioni al vizio della leggerezza. Una volta, un suo discepolo, abitante in un altro eremo, venendo incontro a una necessità dei suoi parenti, acconsentì per il loro bene di andare a Roma, quasi contro voglia, durante la quaresima. Il santo ne ebbe subito conoscenza in spirito e, indignandosi, scrisse a un fratello che si trovava con lui che quella data persona dabbene aveva avuto la presunzione di recarsi a Roma per quella determinata faccenda. L’altro si chiese meravigliato come poteva il maestro essere informato di ciò, dal momento che non c’era nessuno venuto da fuori che potesse avergliene parlato. Indagò accuratamente ed ebbe la prova che le cose stavano proprio come aveva detto l’uomo di Dio.

Andò da un altro condiscepolo, Ingelberto, che era recluso e gli disse che il maestro aveva affermato quelle cose e che senza dubbio possedeva lo spirito di profezia. Quello, invece, disapprovando e negando tutto rimproverò il fratello e, per dimostrare che si trattava di un inganno, vincolò se stesso con imprecazione dicendo: «Se lui ha parlato per spirito di profezia anziché per opera del diavolo, Dio onnipotente non mi permetta più di perseverare in questa reclusione».

Detto fatto. Dopo appena qualche giorno, Ingelberto infranse la reclusione e andò via senza il permesso del maestro. E, si dice, non ebbe più occasione di vederlo in questa vita.

 

 

57. Gaudenzio, che preferì il digiuno all’obbedienza, riceve il perdono dopo la morte.

Il vizio principale di Gaudenzio, Tedaldo e Ingelberto è sempre la mancanza di discrezione nella pratica della vita eremitica.

Un altro fratello, Gaudenzio, padre dell’abate di questo monastero di S. Vincenzo, si era convertito con grande fervore e viveva con spirito ancora più ardente al servizio di Dio. Una volta aveva chiesto al beato Romualdo, il permesso di abbandonare qualsiasi pietanza e di cibarsi di acqua, frutta e verdura cruda. Avendolo ottenuto si atteneva senza stancarsi a questo suo proponimento.

 Un altro fratello, Tedaldo, mosso da indiscreta compassione per la sua debolezza, si premurò di andare dal santo e gli suggerì di porre fine a quella ostinazione, dato che quel fratello non era adatto a portare un peso così grave. Romualdo, per la sua semplicità d’animo, prestò fede alle parole di Tedaldo e ritirò a Gaudenzio il permesso di vivere a quel modo. Costui se ne sentì molto offeso e non sopportò più di continuare a vivere insieme a Tedaldo nell’eremo che Romualdo gli aveva assegnato. Prestò obbedienza a Ingelberto, che si era separato da Romualdo, e ottenne da lui il consenso di vivere alla maniera che si è detto.

 Non molto tempo dopo, Gaudenzio morì, e venne seppellito nel cimitero di S. Vincenzo accanto a Berardo, anche lui discepolo di Romualdo. Ma, poiché era morto in stato di disobbedienza, Romualdo aveva vietato qualsiasi orazione per lui.

 Qualche tempo dopo, un monaco dello stesso cenobio, mentre celebrava con gli altri fratelli l’ufficio mattutino, fu colto improvvisamente da un mal di denti, così violento da non poter rimanere in coro a salmodiare. Immediatamente uscì e si gettò lamentandosi sulla tomba di Berardo e Gaudenzio.

 Dopo essere così rimasto a lungo in preghiera, ad un tratto fu vinto dal sonno. E subito vide Berardo rivestito di splendenti paramenti sacerdotali, con in mano un libro scritto a lettere d’oro, davanti a un altare intento a celebrare i santi misteri della messa. Poi scorse Gaudenzio abbattuto, triste, con volto umiliato, alle spalle di Berardo. Assisteva a distanza e non osava accostarsi ai sacri misteri, come uno scomunicato. E ad un tratto gli disse: «Fratello, vedi il libro splendidamente dorato che ha Berardo? Adesso ne avrei avuto anch’io uno del tutto simile, se il monaco Tedaldo, ahimè, non me l’avesse sottratto». Subito dopo, quel fratello si svegliò e si rialzò sano e indenne, senza più dolori. Poi, pieno di gioia, riferì accuratamente ai fratelli la sua visione.

 Romualdo, a quelle parole, comandò subito ai fratelli di usare carità fraterna con Gaudenzio e di pregare intensamente per lui. Ed è ragionevole supporre che costui come aveva perduto il libro meritato per essersi dissociato da Romualdo, così avrà riottenuto quel libro una volta riammesso in sua grazia e sostenuto dalle sue preghiere.

 Ciò che Tedaldo gli aveva sottratto per mano di Romualdo, ormai Romualdo glielo avrà restituito pregando per lui insieme a tutti i fratelli.

 

 

58. I demoni percuotono un monaco che riposava nel letto di Romualdo.

I capitoli 58-63 formano una serie di aneddoti uniti intorno al tema dei demoni nemici dell’uomo di Dio e della pace, Romualdo. Nei capitoli 59-60 è un sacramentale il pane benedetto da Romualdo) che guarisce la donna impazzita e il ragazzo indemoniato. Non vi è alcuna indicazione di tempo o località.

 

Una volta, Romualdo, prima di partire per un viaggio, affidò la propria cella a uno dei discepoli e gli comandò di abitarvi fino al suo ritorno. Ma costui, sconsiderato, non ebbe per il maestro il dovuto rispetto e non esitò a stendersi sul suo giaciglio. La notte stessa, però, fecero terribile irruzione su di lui degli spiriti maligni, che lo colpirono con le più gravi percosse, lo buttarono giù dal letto e lo lasciarono mezzo morto. Aveva peccato per mancanza di umiltà contro un uomo così grande e giustamente dovette sopportare vendicatori tanto superbi di quella offesa. Non aveva mostrato rispetto per il suo pio maestro, così ne provò la punizione da mani dure ed empie.

 Un’altra volta, tempo dopo, prima di un viaggio, Romualdo lasciò nella cella un altro discepolo. E il discepolo gli disse: «Maestro, io non intendo stendermi sul tuo letto perché ho paura che succeda anche a me quello che è capitato all’altro». Lui gli rispose: «Figlio mio, stenditi e dormi tranquillo». L’altro, quando vi si mise a dormire, incappò nelle mani dei nemici perché non ne aveva avuto il permesso dalla mia piccola persona. Ma tu, con il mio consenso, spera in Dio e riposa senza timori». Secondo l’ordine ricevuto, egli vi giacque e non incorse in nessuna avversità.

 

 

59. Un pezzo di pane benedetto da Romualdo risana una donna impazzita.

Un secolare di nome Arduino si era sottomesso a Romualdo per ricevere l’abito monastico, poi era tornato a casa per sistemare tutte le sue cose. La moglie, quando lo vide arrivare, accesa da furore femminile prese a gridare contro di lui: «Ma bravo! sei stato da quell’eretico, da quel vecchio seduttore e ora mi lasci misera e priva di qualsiasi conforto umano!». Appena dette queste parole, impazzì. Cominciò a delirare e ad agitarsi come se fosse vessata apertamente da un demonio.

 Il santo aveva la consuetudine di dare ai fratelli che si mettevano in viaggio, come benedizione, del pane o un frutto o qualche altra cosa. E i discepoli, ammaestrati da molte esperienze, sapevano con certezza che, porgendo a un malato un po’ di pane benedetto dal maestro, lo riportavano alla salute completa. Anzi, parecchi ammalati erano stati guariti perfino dall’acqua con cui egli si lavava le mani. Occorreva agire però con la massima cautela, per non provocare grandissima tristezza al santo, qualora se ne fosse minimamente accorto.

 Poiché quella donna era tormentata miseramente ormai da un certo tempo, alcuni fratelli le dettero un pezzetto del pane di benedizione che avevano ricevuto dal maestro. Quando la donna l’ebbe mangiato, subito la sua mente si calmò e lei ritornò completamente libera da ogni furore. E immediatamente rese grazie a Dio onnipotente e al suo servo Romualdo per la guarigione e non negò più al marito il permesso di farsi monaco.

 

 

60. Il pane benedetto da Romualdo libera un ragazzo dal demonio.

In un’altra circostanza, venne presentato al beato un ragazzo indemoniato. Ed egli non fece altro che dargli un pezzetto di pane come benedizione. Appena il ragazzo n’ebbe mangiato, fu immediatamente liberato dal demonio. Ovviamente, una volta entrata nel corpo del posseduto la benedizione di Romualdo, lo spirito maligno se n’era dovuto uscire scottato.

 

 

61. Il diavolo minaccia di morte Romualdo.

Il diavolo non poteva mai sentirsi al sicuro dagli attacchi del santo. A nulla valevano i suoi inganni occulti contro di lui, e pertanto non cessava di mostrare allo scoperto il veleno della sua malvagità. Una volta, mentre l’uomo venerabile era in cella, ecco che lo spirito maligno, con tutta la sua bruttezza, ispido, orribile, cominciò a incutere terrore al santo. Assalendolo con furore, minacciava di farlo morire. Imperterrito, Romualdo cercò l’aiuto del cielo e con fiducia gridò al Cristo di soccorrerlo. Immediatamente l’antico nemico scappò sbattendo con tanta rabbia contro la parete della cella che spaccò una pesante tavola di faggio spessa un cubito o anche più.

 Così il diavolo fece vedere palesemente nella casetta quanto fosse ardente la sua crudeltà contro colui che vi abitava, lasciando quasi per scritto ciò che nascondeva nella mente.

 

 

62. Il diavolo gli appare in forma di cane.

Una volta, Romualdo stava andando a cavallo insieme con i suoi discepoli, quando lo spirito maligno, sotto l’aspetto di un cane rosso, gli si scagliò contro con foga e spaventò il suo cavallo, tanto che il santo fu sul punto di essere sbalzato. Egli, allora, domandò ai discepoli se l’avessero visto. Essi attestarono di aver visto il cavallo terrorizzarsi, ma che nulla del genere era apparso loro. E allora egli disse: «Misero lui che un tempo, sappiamo, fu un angelo splendente e ora non si vergogna di presentarsi con l’aspetto di un cane immondo!».

 

 

63. Il diavolo percuote una botte a causa della discordia sorta fra i discepoli e Romualdo.

Diverse località si chiamavano, o si chiamano, Valbona o Vallebona; non siamo in grado di precisare la località di questo monastero femminile, uno dei diversi fondati da Romualdo (cf cap. 35).

 

In un’altra circostanza, Romualdo aveva deciso di far costruire il monastero femminile che si trova a Valbona. Ma era sorta subito una lite fra i suoi discepoli. Alcuni erano contrari, mentre altri insistevano focosamente che venisse realizzato. Quando le due parti in contesa si misero a litigare davanti a lui contrapponendo le loro motivazioni, il diavolo, davanti all’uscio della cella, cominciò a percuotere incessantemente una botte, come con un maglio. Per tutto il bosco si udiva il rimbombo di quei colpi martellanti e frequenti.

 Quando però tutti si furono accordati per la costruzione del monastero, lo spirito maligno, udito da tutti, non finiva più di ululare, di piangere e di lamentarsi. Da ultimo, quando ormai ognuno se ne ritornava per conto suo alla propria abitazione, l’antico nemico li accompagnò con una bufera così turbolenta che pareva volesse sradicare l’intero bosco scatenando tutti i venti possibili. Uno dei fratelli lo apostrofò con queste parole: «Spirito immondo, nel nome della santa Trinità io ti ordino di non inseguirci più». E così fu messo in fuga.

Come ben si comprende, l’autore della discordia aveva fatto udire la sua gioia quando la lite cresceva, ma, una volta ritornata la pace, non aveva potuto trattenere il pianto. Se prima aveva tentato di strappare il cerchio da una botte vuota e di sparpagliare le parti di cui era composta, ora che i discepoli erano uniti dal vincolo della pace e della compattezza della carità, lui aveva dovuto ritirarsi scornato.

 

 

64. Accanto all’eremo di Sitria Romualdo costruisce un monastero.

Qui Pier Damiano tesse l’elogio di Sitria, mentre al cap. 49 parlava degli «innumerevoli scandali e ingiurie» che Romualdo ebbe a patire dai suoi discepoli colà, citandone un esempio molto grave. Non abbiamo modo di risolvere la contraddizione fra questi due ritratti così diversi della medesima comunità.

 Il Damiano paragona Sitria a Nitria, una zona del deserto egiziano dove, nella seconda metà del quarto secolo, proliferavano gli eremiti. E da notare il coinvolgimento della popolazione locale nel cammino ascetico-contemplativo della comunità monastica (cf: anche cap. 37). Lungi dall’essere questo un fatto singolare, molte altre fondazioni romualdine sono state centri di animazione spirituale per i fedeli e per il clero. E’ certamente il caso dell’ultima sua fondazione, Camaldoli, una comunità contemplativa profondamente inserita nella chiesa locale, impegnata sin dalle origini nella direzione spirituale di chierici e laici e disponibile per l’accoglienza dei viaggiatori lungo la via romana che valicala l’Appennino sopra l’Eremo.

 Anche a Sitria Romualdo vuole che ci sia il monastero cenobitico e l’abate, ma quando in questo abate Romualdo comincia a vedere i soliti difetti, parte per Biforco, dove gli eremiti non vogliono neppure sentir parlare di abati (cf: cap. 34).

 

In Sitria allora veniva condotto un genere di vita tale che, per la somiglianza delle opere, oltre che del nome, sembrava una seconda Nitria. Tutti andavano scalzi, tutti erano incolti, pallidi e contenti della loro estrema povertà. Taluni avevano serrato le loro porte per recludersi e apparivano così morti al mondo come dei veri sepolti. Nessuno toccava vino, neanche nelle più gravi malattie. Ma perché parlare dei monaci, dal momento che perfino i servi dei monaci e i loro pastori digiunavano, osservavano il silenzio, si facevano la disciplina tra loro e chiedevano penitenza per qualsiasi parola inutile?

 Secolo d’oro, quello di Romualdo! «Quantunque non vi fossero le torture dei persecutori», non mancava però il martirio volontario! Secolo d’oro, che in mezzo agli animali selvatici dei monti e dei boschi alimentava tanti cittadini della Gerusalemme celeste!

 Quando i fratelli diventarono così numerosi che a stento potevano abitarvi tutti, Romualdo vi fece costruire un monastero e vi prepose un abate, e serbando inviolato il silenzio, si ritirò ad abitare a Biforco. Poiché anche a Sitria, per aver voluto che l’abate vivesse secondo lo spirito e tenesse la strada della rettitudine, ebbe a patire da lui molte persecuzioni umilianti.

 

 

65. Romualdo rimprovera ad Enrico Il la violenza e l’oppressione di cui è colpevole.

Di nuovo Romualdo, amico dei poveri, condanna prima con il silenzio poi con le parole i misfatti di un imperatore.

 L’incontro fra Romualdo ed Enrico II avvenne a Lucca, il 25 luglio 1022. All’invito dell’imperatore la prima reazione di Romualdo fu di respingerlo. Egli conosceva bene le guerre che l’imperatore «cristiano», con l’aiuto di eserciti pagani, conduceva contro i popoli cristiani in Polonia e in Puglia; era al corrente della sua ingerenza negli affari della Chiesa e dell’oppressione dei poveri nel suo regno. In nessun caso - nemmeno per avere in dono qualche monastero - Romualdo si sarebbe reso complice di tali crimini. Il colloquio fra i due, come ce lo descrive Pier Damiano, è unilaterale: è solo Romualdo che parla, castigando a lungo l’imperatore e poi chiedendogli la concessione di un monastero, meno l’abate.

 Dopo la morte di Enrico II, una leggenda crebbe attorno al suo nome; egli fu canonizzato nel 1146.

 

In quel periodo l’imperatore Enrico dai paesi d’oltralpe scese in Italia e mandò a Romualdo una sua delegazione a pregarlo che si degnasse di venire da lui. Gli prometteva di compiere qualsiasi suo comando, purché non gli rifiutasse questo colloquio.

 Romualdo dapprima si mostrò riluttante a infrangere il silenzio. Tutti i suoi discepoli, allora, si misero a supplicarlo unanimi: «Maestro, tu vedi bene che siamo così numerosi a seguirti che non possiamo più abitare convenientemente in questo luogo. Perciò, va’, per favore, chiedi all’imperatore un monastero più grande e colloca lì la moltitudine dei tuoi seguaci». Il santo, non saprei se per una precedente rivelazione o per un’improvvisa ispirazione di Dio, scrisse loro queste parole fiduciose: «Sappiate che avrete in dono dal re il monastero del monte Amiata. Preoccupatevi soltanto di doverne scegliere l’abate».

 Si recò quindi dal re senza violare il silenzio. Il re si alzò subito in piedi davanti a lui e con grande affetto del cuore esclamò: «Oh, se nel tuo corpo ci fosse la mia anima!». Subito lo supplicò di voler parlare, ma per quel giorno non poté essere esaudito.

Il giorno seguente, quando Romualdo venne a Palazzo, accorse a gara da ogni dove una moltitudine di tedeschi. In segno di saluto gli chinavano umilmente il capo, gli strappavano con avidità i peli della pelliccia che indossava e li mettevano premurosamente da parte per portarli in patria come reliquie sacre. A quella vista, Romualdo rimase così contristato che se ne sarebbe subito ritornato alla sua cella, e se non lo fece, fu per accondiscendere al desiderio dei discepoli. Entrato dal re, ebbe molto da dirgli sulla necessità di restituire i diritti delle chiese, sulla violenza dei potenti, sull’oppressione dei poveri. Dopo aver toccato parecchi argomenti, gli chiese un monastero per i suoi discepoli. Il re gli consegnò il monastero del monte Amiata e ne espulse l’abate, un uomo implicato in molte colpe. Quante avversità il santo dovette patire da parte non solo dell’abate destituito, ma anche da quello che lui stesso aveva scelto tra i suoi discepoli! Avversità che egli seppe sopportare con la più grande pazienza, ma che noi non saremmo in grado di descrivere nemmeno se avessimo facilità di parola.

Basti qui mostrare attraverso un solo esempio come Dio gli era di aiuto in ogni cosa, e ci si farà ragionevolmente un’idea di ciò che accadeva di solito.

 

 

66. Romualdo salva la vita a un monaco che vuole ucciderlo.

Ormai Romualdo, pieno dello Spirito «che è Signore e dà la vita», si trasforma totalmente nell’immagine di Cristo. «Oltraggiato non rispondeva con oltraggi, e soffrendo, non minacciava vendetta» (cf: 1 Pt 2,23), protegge e perdona il monaco che voleva procurargli la morte. Come ricordo del suo amore, lascia ai discepoli il pane (cap. 67) e il pesce (cap. 68).

 Mentre sta per morire, dà ai monaci che l’assistono l’appuntamento «al mattino sul far del giorno per celebrare insieme le lodi mattutine» (cap. 69); il transito di S. Romualdo è completamente avvolto nella luce pasquale della risurrezione.

 

Un monaco, agitato da furore forsennato contro di lui, aveva affilato di nascosto un coltello, poi l’aveva messo da parte e aspettava un’occasione propizia per ucciderlo. Durante la notte, mentre riposava vinto dal sonno, vide lo spirito maligno che lo assaliva spaventosamente, gli metteva intorno al collo un cappio e cercava di stringergli la gola con tanta ferocia da farlo ormai spirare.

 Allora il monaco, ridotto all’ultimo respiro, supplicò Romualdo di venire in suo soccorso. Costui - così sembrava al monaco - accorse subito in volo e lo strappò dalle mani del nemico iniquo. Subito egli si svegliò e andò a gettarsi in prostrazione ai suoi piedi, gli chiese di guardare i lividi intorno al collo e non si vergognò di confessare anche il suo delitto perverso. Infine lo ringraziò di avergli salvato la vita e accettò la penitenza per la sua grave colpa.

Così, lui che tramava di togliere la vita a Romualdo, poté invece conservare la propria grazie a quell’uomo santissimo. Scampò alla morte per l’aiuto dell’uomo che egli cercava di far morire.

 

 

67. Romualdo, circondato dalle acque, apprende per rivelazione che gli sarà portato il cibo.

Un capitolo carico di risonanze bibliche: come nell’esodo di Israele dall’Egitto, il popolo uscito nel deserto si trova circondato dalle acque ma ne viene salvato.

E’ la domenica, la pasqua settimanale, e non può mancare il cibo; «il Signore dà il cibo a chi lo teme, si ricorda sempre della sua alleanza» (Sal 110, 5). Anche S. Benedetto si trova in solitudine il giorno di Pasqua, e il prete Romano gli porta da mangiare; dice Benedetto, «So che è Pasqua, perché ci sei tu» (Gregorio Magno, Dialoghi 2,1).

 

Quando governava un monastero, il santo era solito, se non digiunava, venire a mensa ogni giorno con i fratelli. Mangiava una pietanza, poi stava attento alla lettura o a quello che succedeva a ciascuno e non prendeva altro cibo. In quaresima, se non era costretto da necessità inevitabili, rimaneva ininterrottamente in cella.

Nel periodo in cui Romualdo reggeva il cenobio sopra ricordato, all’avvicinarsi della quaresima si mise con i discepoli alla ricerca di un luogo dove costruire un eremo, tra i dintorni montuosi. La ricerca si protrasse a lungo e, a un certo punto, rimasero circondati da ogni parte dai torrenti che straripavano, cosicché non potevano più tornare indietro, e anche dal monastero non era possibile raggiungerli a guado. Vivevano con un po’ di castagne che avevano portato con sé.

Arrivò la domenica e ormai, non potendo contare su altro cibo, i fratelli avevano cominciato a sbucciare le ultime castagne rimaste. Nutrivano un certo timore che stessero così preparando l’ultimo loro pasto. Ma Romualdo, allegro come sempre, disse fiduciosamente che quel giorno non avrebbe mangiato affatto, se Dio non gli avesse fatto portare del pane da qualcuno. I discepoli si chiesero meravigliati su quale speranza potesse contare. Tuttavia, certi che il loro maestro non poteva far presagi senza un motivo, cominciarono ad aspettare con fiducia un cibo come si conveniva a un giorno di festa. Ed ecco arrivare, poco prima dell’ora sesta, tre uomini carichi di pane, di vino e di altri cibi. Dicevano di essere arrivati, dopo grande fatica, da paesi lontani. Pieni di gioia, tutti allora benedissero Dio, mangiarono insieme e capirono che il beato aveva saputo ciò per rivelazione celeste.

 

 

68. A Sitria, un monaco trova un pesce in un torrente secco, per dare da mangiare a Romualdo.

Alla fine della sua vita, Romualdo si riconcilia con le comunità che lo avevano ingiuriato, a Sitria il segno della riconciliazione è il pesce, che significa Eucaristia, che significa Cristo stesso. Poi si recherà a Val di Castro per chiudere il suo lungo cammino e lasciare alla comunità il suo corpo, diventato anch’esso Eucaristia.

 

Una volta Romualdo arrivò a Sitria. Era a digiuno e i fratelli, in quelle montagne poco praticabili, non avevano pesce da dargli da mangiare. Rimasero mortificati tra loro, e si chiesero preoccupati che cosa potessero procurarsi per un ospite tanto venerabile.

 Allora un fratello, credo ispirato da Dio, corse in fretta a un torrente quasi secco che scorreva nelle vicinanze. L’acqua, però, era scarsissima e nessuno vi aveva mai visto un pesce. Il fratello si mise a pregare devotamente Dio che, come aveva potuto dare acqua da una roccia arida al popolo d’Israele, così si degnasse di mostrargli un pesce in quel ruscello inaridito. E immediatamente mise una mano in quella poca acqua e vi trovò un pesce che fu più che sufficiente per il pranzo di Romualdo. Dio, evidentemente, provvedeva al nutrimento del suo servo e così, in una montagna sassosa e arida, si era trovato dove prendere il pesce, come in una valle pescosa.

Per quanto riguarda la vita del beato, abbiamo qui narrato poche cose tra le tante. Crediamo però che siano sufficienti e, pertanto, veniamo ora al suo transito.

 

 

69. Transito di Romualdo.

Lasciata Sitria, Romualdo, piegato sotto il peso degli anni, si reca per l’ultima volta in Toscana. Ad Arezzo si incontra con il nuovo vescovo Tedaldo, là cinque preti sono pronti a costituire, sotto la guida di Romualdo, una comunità monastico-eremitica a servizio della chiesa locale. Siamo verso il 1025.

 S. Pier Damiano non parla della fondazione di Camaldoli, perché al tempo in cui scrive l’ultima comunità romualdina è ancora di così poca importanza che non vale la pena di ricordarla esplicitamente. Ma nel 1080, il quarto priore dell’Eremo di Camaldoli, Rodolfo, ne racconta la fondazione nelle sue Consuetudines.

 «Sappiate dunque, o fratelli carissimi, che l’Eremo di Camaldoli, per ispirazione dello Spirito Santo e a preghiera del reverendissimo Tedaldo vescovo di Arezzo, fu edificato dal santo padre Romualdo eremita... Il santo, edificatevi cinque celle, vi pose cinque religiosi fratelli...e dette loro per regola di digiunare, di tacere e di rimanere in cella. Ciò fatto, trovò un altro luogo più in basso che si chiama Fontebono e vi costruì una casa. Vi mise poi un monaco con tre conversi per ricevere gli ospiti e dar loro dolce risposta e caritatevole refezione, affinché l’eremo sovrastante restasse sempre nascosto e lontano dai rumori del mondo... All’ultimo il beato Romualdo, dopo aver ammonito tutti con molta diligenza, li abbracciò con le lacrime agli occhi e partì per Val di Castro. In quella valle aveva pure costruito un monastero e quivi rese lo spirito a Dio; dopo che Cristo ebbe per mezzo suo manifestato molti miracoli, tanto durante la sua vita come dopo la morte, come riferisce la storia di lui, scritta da Pietro Damiano, uomo cattolico e vescovo e cardinale di Santa Romana Chiesa: miracoli mostrati dal Signore non solo in quei luoghi, ma in molti altri ancora».

 

Molti altri furono i luoghi in cui il santo abitò e i mali che subì specialmente dai suoi discepoli e molti anche i miracoli da lui compiuti, che noi però tralasceremo per evitare una narrazione troppo prolissa. Alla fine di tutti i suoi vari soggiorni, quando ormai aveva la percezione dell’imminenza della sua fine, ritornò al monastero che aveva costruito in Val di Castro. E mentre attendeva, senza esitazioni, l’avvicinarsi del trapasso, volle farsi costruire una cella dotata di oratorio, in cui rinchiudersi e osservare il silenzio fino alla morte.

 Vent’anni prima di morire aveva già predetto apertamente ai discepoli che sarebbe morto in quel monastero e che sarebbe spirato senza che nessuno fosse presente o gli pagasse il funerale. Quando la costruzione della cella fu terminata, mentre la sua mente era presa dal pensiero di chiudervisi presto, il suo corpo cominciò ad essere sempre più aggravato da incomodi e a scendere la china, non tanto per la malattia quanto per la sua vecchiaia decrepita. Ormai da mezzo anno emetteva catarro troppo abbondante insieme agli umori del polmone malato; la tosse lo tormentava rendendogli la respirazione affannosa. Con tutto ciò, il santo non aveva acconsentito né a mettersi a letto né, per quanto poteva, ad allentare il rigore del digiuno.

 Un giorno cominciò a poco a poco a perdere vigore e a risentire più gravemente degli attacchi del suo male. Poi, verso il tramonto, ordinò ai fratelli che lo assistevano di uscire, di chiudere dietro di sé la porta della cella e di tornare all’alba per celebrare con lui le lodi mattutine. Inquieti per la sua fine, quelli uscirono a malincuore, e invece di andar subito a riposare, preoccupati che il maestro non avesse a morire, si appostarono presso la cella a spiare di nascosto quel talento del tesoro prezioso. Dopo essere rimasti là per un certo tempo, ascoltarono con orecchio sempre più attento e, non percependo più movimenti del corpo né voce, indovinarono l’accaduto. Spinsero la porta e si precipitarono rapidamente, accesero il lume e trovarono il santo cadavere che giaceva supino, mentre l’anima beata era stata rapita in cielo. La perla celeste giaceva come appena abbandonata per essere poi riposta con onore nel tesoro del sommo Re. Morto nel modo che aveva predetto, è certamente entrato dove aveva sperato.

 Romualdo era vissuto centovent’anni, di cui venti nel mondo, tre in un monastero e novantasette nella vita eremitica. Ora risplende in modo inesprimibile fra le pietre vive della Gerusalemme celeste, esulta nelle schiere fiammeggianti degli spiriti beati, è vestito della stola candidissima dell’immortalità ed è incoronato di un diadema sfolgorante per sempre dallo stesso Re dei re.

 

 

70. Un pezzetto del cilizio di Romualdo guarisce un uomo posseduto dal demonio.

Romualdo viene sepolto a Val di Castro. Il monastero diventa subito luogo di pellegrinaggio, e Romualdo è venerato come un nuovo S. Benedetto: vedi Dialoghi 2,38.

 

Riguardo ai segni miracolosi che Dio mostrò per mezzo di quell’uomo venerabile, dopo la sua santa morte, chi sentirebbe il bisogno di leggere il racconto, dal momento che è possibile vederne spesso di nuovi? Del resto, i miracoli che si hanno presso il suo sepolcro sono così frequenti che ci sembra sia meglio ometterli del tutto piuttosto che narrarne anche pochi. Qui ci basti esporne soltanto due, compiuti però altrove.

 Un fratello che era stato discepolo del santo, aveva donato al monastero un piccolo oratorio in suffragio della propria anima. Aveva anche mandato, a quell’oratorio, un lembo di manica del suo cilicio e aveva ordinato che venisse riposto con onore sotto l’altare. L’uomo che l’aveva portato, invece, non si era curato di porlo sotto l’altare, come gli era stato ordinato. L’aveva messo incautamente in una fessura della parete e lì l’aveva lasciato.

 Tempo dopo, fu portato in quella chiesa un indemoniato. Stando in mezzo, girava la testa di qua e di là e scrutava ogni cosa intorno a sé. Alla fine, cominciò a fissare con terrore i suoi occhi torvi sulla parete e rivolto verso il punto in cui giaceva il frammento del santo cilicio, non cessava di gridare ripetendo spesso: «Lui mi sta cacciando! Lui mi sta cacciando!». E, ad un tratto, mentre gridava così, venne espulso da quell’uomo.

 Da questo fatto, si capisce quanto grande sia la sua personale intercessione presso la clemenza di Dio, se il demonio non poté resistere davanti a un piccolissimo frammento delle sue vesti. Se, pur assente, è capace di tali cose, che cosa non compirà con la sua presenza corporale?

 

 

71. Un fattore rapisce la vacca di una povera donna e all’istante muore.

Romualdo, povero e amico dei poveri, opera in loro favore dopo la morte come durante la sua vita: cf cap. 10.

 

In un’altra circostanza, un fattore sottrasse di prepotenza la mucca di una donna povera, sordo alle sue grida e alle sue molte suppliche. Lei, allora, corse subito a portare due pollastri alla chiesa di cui abbiamo parlato sopra, li gettò davanti all’altare e, prostrandosi, si mise a esclamare piangendo: «San Romualdo, esaudisci questa misera, non disprezzare questa donna desolata! Ridammi il mio sostentamento che mi è stato rubato ingiustamente». Ed ecco un fatto sorprendente. Il fattore, con la sua refurtiva, si era allontanato appena un tiro di freccia dalla casa della donna, quando improvvisamente si sentì male. Lasciò la mucca sul posto, andò a casa e subito morì.

 

 

72. Il corpo di Romualdo viene trovato intatto dopo cinque anni.

 Il corpo di S. Romualdo fu custodito sotto l’altare a Val di Castro fino al 1481, quando fu trafugato da ladri che lo volevano portare a Ravenna. Scoperto il furto, le ossa del santo furono trasferite a Fabriano nella chiesa di S. Biagio, dove riposano tuttora.

 

Cinque anni dopo la morte del santo, la sede apostolica concesse ai monaci il permesso di costruire un altare sopra il suo corpo venerabile. Un certo fratello Azone allora andò nel bosco poiché voleva preparare una piccola cassa, che potesse contenere soltanto le ossa e la polvere del santo confessore.

 La notte seguente, ad un fratello che dormiva apparve un vecchio che, per cominciare, gli domandò: «Dov’è il priore di questo monastero?». L’altro gli rispose che non lo sapeva. E subito il vecchio aggiunse: «Si è dato premura di andare nel bosco per approntare una cassa, ma in un cofanetto così piccolo il corpo del beato non potrà entrarci».

 Il giorno dopo, preparata la cassa, il priore fece ritorno. Il fratello che aveva avuto la visione gli chiese subito cosa era andato a fare nel bosco. Lui, con la scusa che era stanco, non gli volle rispondere. Il fratello allora gli disse il motivo di quel viaggio e gli espose dettagliatamente la sua visione, senza nascondere nulla. Quando fu scavata la fossa, il corpo del santo fu trovato pressoché intatto e incorrotto come quando era stato seppellito. Soltanto, su qualche parte, si notava qualche leggera lanugine di muffa. Fu perciò scartata la piccola cassa già pronta e fu subito preparata un’arca della misura del beato corpo. Qui furono riposte le sante reliquie e su di esse fu consacrato solennemente un altare.

Il Beato Romualdo era morto il diciannove giugno [1027] 35, regnando il Signore nostro Gesù Cristo che, con il Padre e con lo Spirito Santo, vive nella gloria per gli infiniti secoli dei secoli. Amen.

 

 

Bibliografia Essenziale

 R. BARTOLETTI, S. Romualdo. Ricognizione sepolcro, Edizioni Camaldoli 1981.

R. BARTOLETTI, S. Romualdo. Vita iconografia, Edizioni Camaldoli 1984.

A. PAGNANI, Vita di S. Romualdo abbate fondatore dei Camaldolesi, Edizioni Camaldoli 1967.

PIER DAMIANO, Vita di S. Romualdo padre e maestro dei Monaci Benedettini Camaldolesi,

Edizioni Camaldoli 1982.

G. TABACCO, Petri Damiani Vita Beati Romualdi, Istituto Italiano per lo Studio del Medievo, Roma 1957 (= Fonti per la storia d’Italia, 94).

G. TABACCO, Romualdo di Ravenna e gli inizi dell’eremitismo camaldolese, in «L’eremitismo in Occidente nei secoli XI e XII». Atti della 2a settimana internazionale di studio, Mendola 30 agosto - 6 settembre 1962, Vita e Pensiero, Milano 1965, pp. 73-121.

G. TABACCO - P. CANNATA, Romualdo, «Bibliotheca Sanctorum», t. XI, Roma 1968,

coll. 365-384.

L. VIGILUCCI, Camaldoli. Itinerario di storia e di spiritualità, Edizioni Camaldoli 1988.

 

 

 

Note:

1 inmunde munde, tradotto alla lettera per conservare il gioco delle parole, porta anche il senso di un «ordine [sistema di vita] disordinato [che ha perso il senso della propria finalità]», quindi, «forma [legge, ordine statico] senza contenuto [significato, senso, dinamica della crescita]».

2 Cita Geremia 4,22 secondo la Volgata.

3 S. Atanasio dice lo stesso all’inizio della sua Vita Antonii, ma come Pier Damiano, non mantiene la promessa.

4 Cf. Giovanni 10,41 e Matteo 11,11.

5 Geremia 9,5.

6 Pier Damiano parla di sé in termini simili, nei pochi riferimenti autobiografici fra i suoi scritti (cf. Opuscolo 42, cap. 7).

7 Apollinare fu il primo vescovo di Ravenna, al principio del secondo secolo; le legende lo vogliono discepoli di S. Pietro Apostolo. Fu perseguitato ma non morì martire. Nell’abside della basilica (sesto secolo), il suo nome è scritto Apolenaris, secondo il dialetto proto-italiano del tempo, e così lo scrive anche Pier Damiano. Il Damiano ci dà anche l’ortografia Romualdus, sebbene quella di Bruno di Querfurt, Romaldus, probabilmente rappresenta la pronunzia usata da S. Romualdo stesso.

8 Quando i camaldolesi vennero a ricostituire la comunità monastica a Classe nel secolo XII, cercarono i resti di S. Apollinare e li trovarono sotto l’altar maggiore nell’abside. I nostri monaci restarono là fino all’arrivo delle truppe di Napoleone, che trasformarono la basilica in palestra. Attualmente la chiesa è custodita dai monaci vallombrosani.

9 Qui [episcopus] alacer factus castæ concupiscientiæ exhortationis stimulos addidit.

10 Anche nella vita di S. Benedetto c’è il racconto dei monaci che lo vogliono uccidere: cf. Gregorio Magno, Dialoghi 2,3.

11 Cf. Matteo 6,6.

12 C’è qualcosa nel racconto di Pier Damiano che non convince. Ammesso e concesso che Romualdo non sapeva leggere quando è entrato in monastero, sembra del tutto inverosimile che, dopo tre anni a Classe, un giovane intelligente come lui non abbia già imparato a memoria i 150 Salmi con i Cantici dei profeti, e non sia in grado di leggere (pur senza comprenderne del tutto il senso) le letture dell’Ufficio divino. Perché, allora, riesce così male a spiccicare le parole dei versetti che gli toccano? Ecco un’ipotesi: che il Salterio che i due eremiti usano non è in latino ma in lingua greca, in quanto Marino, originario della Puglia (zona allora bizantina; vedi cap. 15) sarebbe greco.

13 Al novizio Romualdo ancora mancava la virtù della discrezione («presumeva riprendere gli altri…») ed era soggetto alle tipiche tentazioni del deserto – soprattutto l’accidia. Ma nemmeno Marino, l’eremita duro e puro, aveva capito che senza la discrezione la severità non giova a nulla. Ai tempi nostri, la reclusa camaldolese Suor Nazarena disse: «Con la severità, nulla di bene si fa».

14 Ex ulterioribus Galliæ finibus. Traduco «Catalogna», per non dire «Francia»; la zona intorno all’abbazia di Cuixá passò alla Francia solo nel secolo XVII, mentre al tempo di Guarino era sotto i conti di Barcellona.

15 Ad esempio, S. Girolamo, Vita di Ilarione, nn. 1-2: «Solo di succo d’erbe e di scarsi fichi secchi [Ilarione] si alimentava, ogni tre o quattro giorni, la sua vita languente; pregava spesso e salmodiava mentre scavava la terra con la zappa, perché la fatica del lavoro raddoppiasse la fatica dei digiuni». Vedi anche Cassiano, Istituzioni 2,12: «Terminato l’Ufficio regolare, ciascuno ritorna alla propria cella che può occupare da solo o con un altro fratello, cioè con colui al quale è unito da uno stesso lavoro o da uno stesso maestro e tipo di formazione o anche da chi è simile in virtù». Un brano analogo si trova anche nelle Vite dei padri X (PL 73, 924).

16 Vedi ad esempio, i seguenti brani sparsi tratti da S. Atanasio, Vita di Antonio: «Il diavolo... non sopportando di vedere tante virtù in un adolescente, aggredì [Antonio] con insidie da veterano. In un primo momento, tentando di distrarlo dal modo di vita intrapreso con forza, gli procurava il ricordo della ricchezza... della nobiltà della stirpe... e altre blandizie della vita che aveva abbandonato... Ma dopo che il diavolo ebbe compreso di essere impotente di fronte alle sue preghiere... Io molestava con turbamenti notturni. Dapprima cercava di esagitarlo di notte con una moltitudine di demoni e orribili spaventosi suoni; ma anche di giorno combatteva contro di lui apertamente, di modo che nessuno poteva dubitare che Antonio combattesse contro il diavolo... Sentendo queste cose, il soldato di Cristo, ringraziando il Signore, reso più audace contro il nemico, disse: “Quanto sei misero e spregevole!... Non mi curerò più di te. Il Signore è il mio aiuto: esulterò di fronte ai miei nemici”. E Antonio, appena cantato questo versetto del Salmo, vide scomparire il fantasma che gli stava di fronte».

17 Nella Vita dei cinque fratelli, cap. 2, Bruno di Querfurt riporta l’elogio che fa Giovanni Gradenigo nei riguardi del suo amico e maestro: «Romualdo è il più grande eremita dei nostri giorni, eppure questa vita bella e sublime egli la vive umilmente, senza presunzione1; segue invece le Conferenze dei padri del deserto, e così insegna a noi la retta via».

18 Si suppone che Romualdo abbia preso il quarto di pagnotta dalla propria razione; cf. Storia Lausiaca 22: «Quando il sole tramontò gli disse: «Vuoi che mangiamo un pezzo di pane?». Gli rispose Paolo: «Come vuoi tu, padre». Anche questo contribuì a piegare Antonio, il fatto cioè che non fosse accorso con entusiasmo alla proposta di mangiare, ma avesse lasciato a lui ogni decisione. E dunque, messa a tavola, portò i pani. Antonio, posto sopra di essa alcuni biscotti di sei once, uno ne bagnò per se - poiché erano secchi - e tre per l’altro».

19 La comprensione per le altrui debolezze, mostrata nei riguardi di Pietro Orseolo, diventa una norma generale nelle comunità che si ispirano all’insegnamento di S. Romualdo. Della prassi di Fonte Avellana scrive Pier Damiano, Opuscolo XV, 16: «Rimettiamo al giudizio del Priore qualsiasi moderazione a riguardo dei deboli, perché consideri le possibilità di ciascuno e dispensi gli alimenti con carità come gli parrà utile. Infatti anche noi facciamo nostre le parole che spesso diceva ai suoi discepoli il beato Romualdo: «Purché un fratello non abbandoni la cella, gli si permetta di mangiare anche la carne, qualora urge una tale inevitabile necessità». In questo insegnamento Romualdo era molto più vicino allo spirito discreto ed equilibrato di Cluny che non a quello dei monaci cultori della lettera della Regola che sarebbero venuti dopo di lui.

20 Cf. Cassiano, Conferenze 2,17: «Conviene, all’ora stabilita, prendere cibo e sonno, nonostante si possa averne ripugnanza…La caduta è più grave per un digiuno immoderato che per un appetito soddisfatto. Da questo si può, intervenendo una salutare compunzione, risalire alla misura dell’austerità; dall’altro [cioè dal digiuno immoderato] è impossibile». S. Pier Damiano, in Opuscolo XLIX, 9, riferisce questa massima di Romualdo: «Fratelli, quando sedete a mensa, ovunque vi troviate, lasciate che gli altri incomincino a mangiare, e voi aspettate; poi quando essi avranno soddisfatto in parte il naturale appetito, incominciate anche voi: così eviterete la taccia d’ipocriti e serberete senza ammirazione la regola della sobrietà».

21 Cassiano, Conferenze 9,36: «Le nostre preghiere devono essere frequenti, ma brevi per il timore che, se si prolungano, chi ci spia [cioè il diavolo] non abbia la facoltà di inserirvi qualche distrazione. Questo infatti è il vero sacrificio: “il sacrificio di Dio è un cuore contrito” [Salmo 50(51),19]». Sulla preghiera vedi anche la Regola di S. Benedetto, cap. 20.

22 Qui la dipendenza da Cassiano è diretta: «E’ più opportuno cantare dieci versetti soltanto di un salmo con la concentrazione della mente, piuttosto che scorrere tutto il salmo distrattamente» (Istituzioni 2,11).

23 Cf. la «Piccola Regola di S. Romualdo» in Vita dei cinque fratelli, cap. 19.

24 Romualdo è ancora giovane; intercede per l’amico contadino, ma non riesce a fargli riavere la vacca. Anni dopo, reso perfetto con la morte santa, lo farà per la povera donna cui viene portata via la vacca: vedi sotto, cap. 71.

25 Cassiano, Conferenze 17,18.

26 Conferenze 17,24; Vite de Padri 24,8,4.

27 Nella tradizione agiografica di Ravenna si parla di apparizioni dello Spirito Santo – sotto forma di colomba - in ben altro contesto: tali apparizioni accompagnarono l’elezione dei primi dodici vescovi della città.

28 Dice san Gregorio Magno di S. Benedetto: «L’antico nemico non poté tollerare questa attività [l’evangelizzazione della gente intorno a Monte Cassino] e non più occultamente o in sogno, ma con palesi apparizioni prese a disturbare la tranquillità di Benedetto. Con alte grida [il demonio] si lamentava della violenza che subiva e i suoi urli giungevano alle orecchie dei fratelli, pur senza vederne la figura… Ma di queste lotte del nemico contro il servo di Dio ne dovremo vedere ancora parecchie altre. Esso gli scatenò contro con tutte le forze una spietatissima guerra, senza accorgersi che, suo malgrado, gli prestò l’occasione di altrettante vittorie» (Gregorio Magno, Dialoghi 2,8).

29 Pier Damiano chiama i demoni «Etiopi», ed è difficile difenderlo dall’accusa del razzismo; al massimo possiamo scusare la sua identificazione del “diverso” con il “diabolico” come un caso di ignoranza invincibile.

30 E’ ancora viva fra la popolazione di Verghereto la memoria di Romualdo; a quanto dice Pier Damiano sulla fondazione del monastero di S. Michele, la tradizione orale locale aggiunge alcuni particolari di non poco interesse – come, ad esempio, il potere pacificatore dell’eremita su due bovini inselvatichiti.

31 Romualdo fa dedicare il monastero di Verghereto a S. Michele Arcangelo, come l’abbazia di Cuixá; infatti l’Appennino tosco-romagnolo è di aspetto molto simile ai Pirenei orientali. Romualdo sente nostalgia per l’eremo presso il monastero di Cuixá, dove ha trascorso il periodo più felice della sua vita..

32 Cf. Matteo 22,37-40.

33 Notiamo il senso che Pier Damiano e Romualdo danno alla «stretta disciplina della regola»: si tratta soprattutto della vita comune, della koinonia che unisce i monaci e li fa tutti uguali. In una società feudale le distinzioni di classe e di cultura inevitabilmente si mantenevano anche in monastero. E’ proprio questo che Romualdo non tollera.

34 Cf Vite dei padri IV: «Raccontarono di un anziano che un giorno ebbe desiderio di mangiare un cocomero; lo prese e se lo appese davanti agli occhi, e, pur non avendo ceduto al desiderio, faceva penitenza per domare se stesso, per il solo fatto che lo aveva desiderato». Ma si noti bene: Romualdo, con la solita sua discretio, sa distinguere bene l’appetito (in sé buono) e il vizio ( fomes peccati, ma non ancora peccato); in Romualdo c’è troppo sense of humour per cadere nella penitenza indiscreta di certi “padri del deserto”.

35 L’anno si desume dalla carta del vescovo Teobaldo di Arezzo, scritta nell’agosto 1027 in occasione della consacrazione della chiesa dell’Eremo di Camaldoli, che parla del Padre Romualdo recentemente scomparso.

 

 

Monache Camaldolesi di Pratovecchio

 Il più antico dei monasteri camaldolesi femminili si trova a Pratovecchio nella provincia di Arezzo. Il complesso monastico, che da tanti secoli si rispecchia nelle limpide acque del fiume Arno, circondato dalle affascinanti bellezze della natura, è un suggestivo richiamo alla preghiera per i passanti. 

Le prime notizie che riguardano il monastero risalgono al 1134, anno in cui la contessa Imilia o Imilde, vedova di Guido dei Conti Guidi del Casentino, si rivolse ai monaci di Camaldoli per dare risposta al desiderio della figlia Sofia, la quale impressionata dalla santità degli eremiti di S. Romualdo, voleva abbracciare la vita monastica benedettina nella forma di Camaldoli. Il Priore di Camaldoli, Azzone, accolse l'invito ordinando la costruzione del monastero sotto il titolo di S. Salvatore, alla maniera del Sacro Eremo, in piena campagna nei pressi della chiesa di S. Maria di Poppiena, non molto distante dal castello di Pratovecchio.

Poi per mancanza di sicurezza e per il moltiplicarsi di scorrerie dovute ora alle milizie fiorentine ora a quelle aretine, le monache furono costrette a ritirarsi entro le mura del castello.

E' in questa circostanza di tempo, luogo e situazione che la Contessa Imilde ed il figlio Guido, fecero dono alle Monache dello stesso loro palazzo che successivamente fu trasformato in un vero monastero: abitazione sicura, comoda, ben appartata e adatta ad una vita contemplativa.

Le monache ne presero possesso nel 1140. Tre anni dopo, cioè nel 1143, fu fatta la Solenne Dedicazione e Consacrazione della loro Chiesa e tanto al Monastero come alla Chiesa fu cambiato il titolo di S. Salvatore in quello di San Giovanni Evangelista. Azzone, sempre priore di Camaldoli, prescrisse le Costituzioni che il Beato Rodolfo, mezzo secolo prima, aveva lasciato alle monache di S. Pietro di Luco in Mugello, cioè le stesse che si osservavano al Sacro Eremo, consistenti nella rigorosa osservanza della Regola di S. Benedetto. Infine fu adottato l'abito bianco, proprio dei discepoli di S. Romualdo.

Delle prime cinque monache, tutte della Famiglia dei Conti Guidi, conosciamo i nomi: Sofia che fu la prima Badessa, Geltrude, Massimilla, Lucia e Lucrezia. A queste si aggiunse poi la fondatrice e benefattrice Contessa Imilde. Tutte illustrarono il Monastero con una vita santa.

La stima ed il nome, che la Comunità delle Vergini dall'abito bianco andava sempre più guadagnandosi, attirarono nobildonne, ricchezze, potere. Ma proprio questa florida vitalità ne affievolì lo spirito. Per alcuni secoli il monastero rimase sotto la giurisdizione dei Priori di Camaldoli. Dal 1781, in seguito ad un Decreto di Papa Pio VI passò sotto l'obbedienza del Vescovo di Fiesole, nella cui diocesi rimane tuttora. Visse in questo periodo nel monastero una donna ammirabile per virtù e penitenza: M. Crocifissa Veraci. Per oltre trent'anni, prima come maestra, poi come badessa, risvegliò nel cuore di tutte le consorelle generosità e grande fervore. Morì il 6 febbraio 1822 in concetto di santità.

Nel secolo XIX furono rinnovate le Costituzioni, alle quali si aggiunsero Consuetudini e Memorie. Nel 1810 il monastero subì la soppressione napoleonica e 56 anni dopo, quella dello stato italiano. Ammirevole quanto incredibile è il fatto che durante la soppressione qualche monaca abitò sempre in Monastero e quelle che dovettero lasciarlo, si mantennero in "corpo di comunità", guidate sempre dalla stessa Abbadessa e sostenute dal medesimo Confessore.

Nonostante la varietà delle vicende succedutesi nel corso dei secoli, il monastero continua a svolgere la sua missione e costituisce anche oggi un segno della presenza di Dio nel mondo.

 

*    *   *

Le monache camaldolesi rappresentano il ramo femminile dell'Ordine fondato da San Romualdo nel secolo XI ed osservano la regola di San Benedetto, con le particolarità proprie dello spirito camaldolese, contenute nelle costituzioni.

San Romualdo unì alla vita cenobitica benedettina la vita eremitica, unione espressa dallo stemma della famiglia camaldolese. Le due colombe che si abbeverano allo stesso calice, indicano non solo la comunione esistente tra le due forme della tradizione camaldolese, eremitica e cenobitica, ma anche l'unità fra tutti i membri della famiglia di S. Romualdo.

Il monastero camaldolese accoglie tutti coloro che desiderano servire il Signore nella sua casa, vivere insieme praticando l'obbedienza e seguendo le direttive di chi è legittimamente preposto alla guida della comunità.

Note distintive della spiritualità camaldolese sono: la preghiera contemplativa, il lavoro e il silenzio. Quest'ultimo non come fine a se stesso, ma come mezzo per un ascolto più attento alle richieste di Dio.

Preghiamo per i bisogni della Chiesa e per quelli di tutta l'umanità e con gioia grande siamo riconoscenti a Dio Padre per averci chiamate a questo servizio, secondo il suo disegno di salvezza.

Al centro della vita monastica rimane sempre la celebrazione Eucaristica e la liturgia delle ore. Le monache pongono una particolare attenzione al corso dell'anno liturgico con i suoi "tempi forti" e la celebrazione delle principali solennità. La preghiera privata e comunitaria, la lettura frequente e meditata della Parola di Dio mantengono vivo in ogni monaca l'atteggiamento di ascolto di Dio e dei bisogni dell'umanità.

Anche il lavoro è saggiamente distribuito, perché nessuno deve rattristarsi nella casa di Dio e tutto sia fatto con gioia.

In ogni epoca, nella quale il Monastero ha potuto vivere la sua vita regolare, sotto la giurisdizione prima del Priore di Camaldoli e poi dell'Ordinario, ha svolto compiti di educandato e ha ricevuto delle fanciulle per la preparazione ai Sacramenti. Tanti lavori artisticamente apprezzabili intrapresi nel passato dalle monache, oggi sono scomparsi. Tuttavia alcune attività continuano ancora, come lavori con filato di cotone (tende, centri, trine a uncinetto o ferri), fornitura delle ostie, coltivazione dell'orto, lavori in terracotta grezza (pannelli, statue di piccole dimensioni, personaggi per il presepe, fiori), restauro degli oggetti d'arte, disegno, lavori effettuabili con il computer ecc.

Il clima di dialogo fraterno e momenti di incontro comunitario, anche ricreativo, sono molto importanti per la nostra vita di claustrali.

Inoltre viene praticata l'accoglienza degli ospiti, come è stato sempre fatto dall'antichità nei monasteri benedettini. Nella foresteria vengono accolte specialmente le giovani che desiderano fare un'esperienza di condivisione di vita con le monache, ma anche tutti coloro che vogliono  trascorrere un periodo di riposo in un'atmosfera di serenità e di pace.

All'inizio del terzo millennio cristiano, la comunità delle monache di Pratovecchio desidera trasmettere alle nuove generazioni il carisma camaldolese conservato finora con fedeltà ed amore. I confratelli dell'Ordine ed anche il clero diocesano ci sostengono con premura. La corrispondenza di quanti ci conoscono, ci stimola ad ammirare la benevolenza del Signore e guardare al futuro con tanta fiducia.

 

Per mettersi in contatto con le Monache Camaldolesi:

Monastero di San Giovanni Ev.

Piazza Jacopo Landino, 20

52015 Pratovecchio (AR)

Tel./Fax 0575 583767

Email: camaldolesipratovecchio@interfree.it

 

 Per arrivare al Monastero

 * Con i mezzi pubblici:

Da Firenze: con la SITA (in piazza della Stazione) - di solito c'è da effettuare un cambio durante il percorso,

Da Arezzo: con il treno della LFI, è la penultima stazione della linea Arezzo-Stia

 

* In auto:

Da Firenze (valido anche per uscita FI-Sud A1) distanza 50 km: prendere per Pontassieve, poi per la Consuma e Bibbiena, in località Scarpaccia deviare per Pratovecchio,

Da Arezzo (valido anche per l'uscita di Arezzo della A1) distanza 46 km: prendere per il Casentino, Bibbiena, Poppi, Pratovecchio.